Il segretario di Togliatti che sfidò il comunismo

Se n’è andato, con Massimo Caprara, uno dei grandi testimoni delle vicende politiche italiane nel secolo scorso. Caprara è stato uno dei personaggi esemplari di quella stagione insieme drammatica e affascinante del nostro Paese in cui uomini di grande levatura intellettuale e morale compirono un percorso tortuoso e difficile tra le ideologie e le eresie: fino al traguardo d’un distacco ironico o diffidente dalle une e dalle altre, per alcuni. E per altri al traguardo d’una nuova solida fede. Caprara è stato, come attivista politico e come giornalista, un privilegiato. Lo è stato come segretario particolare, per vent’anni, di Palmiro Togliatti. Del leader comunista ha saputo e capito tutto quel che c’era da sapere e da capire, sul piano personale e sul piano politico.
Al Migliore ha dedicato moltissime pagine, tutte interessanti. Le ha scritte senza mai aver l’aria di volersi avventare contro il capo rinnegato. Ha scelto piuttosto la strada dell’analisi ragionata e del racconto sobrio, acuto, efficace. Manteneva lo stesso tono anche quando, a quattr’occhi, si ragionava della sua lunga militanza nel Pci che lo fece sindaco di Portici, per quattro legislature lo mandò a Montecitorio, gli affidò compiti delicatissimi. Sì, la conoscenza con Togliatti - Caprara era un intelligente ragazzo di buona famiglia napoletana subito preso in simpatia dal leader comunista appena rientrato in Italia - rappresentò la prima svolta decisiva della sua esistenza. Diligente, efficiente, abile, capace di tacere, Caprara riuscì a conquistare la totale fiducia del suo capo.
La seconda svolta venne nel 1969, quando insieme agli altri fondatori del Manifesto - in particolare Luigi Pintor, Valentino Parlato, Rossana Rossanda - Caprara si mise in rotta di collisione con il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Era stato spiegato a Berlinguer che la nuova pubblicazione non aveva «intenzioni frazioniste», voleva solo fare «ricerca teorica». Ma quando il Manifesto uscì fu chiaro che andava ben al di là. Il Pci veniva scavalcato a sinistra da ribelli che non ammettevano cedimenti borghesi, ma che nel contempo avevano criticato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia con toni ben diversi da quelli felpati della dirigenza comunista. Questi comunisti dell’ala sinistra avevano dissentito dallo stalinismo più per le caratteristiche conservatrici che per quelle dispotiche e guardavano alla Cina maoista come a un nuovo, praticabile modello. Con durezza furono tutti radiati dal Pci.
Caprara si rimproverò sempre per non aver lasciato il partito nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria, e per avere assistito, allora, all’umiliazione di Giuseppe Di Vittorio che aveva deplorato l’attacco all’Ungheria e che fu costretto da Togliatti a una umiliante ritrattazione. «Imre Nagy - ha scritto Caprara - attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958. Nonostante simili gravissimi eventi io allora non uscii dal partito... Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia». Imboccato il difficile cammino dei dubbi, Caprara non s’acquetò nemmeno nel Manifesto. Già molto prima che eventi di portata storica sgretolassero l’Unione Sovietica e relegassero il comunismo nei ripostigli della storia, Caprara aveva visto crescere le sue diffidenze. Le utopie svanivano, avveniva in lui una conversione politica che fu anche una conversione religiosa. Raccontò d’essere stato afferrato «dalla mano dolce e potente di Cristo tramite don Luigi Giussani, che pure non ho mai visto di persona». Anche gli ambienti del Manifesto erano toccati dalla parola di don Giussani: «Giussani diceva cose più interessanti. In lui vedevano qualcosa che non vedevamo in nessun altro. Non siete rivoluzionari, diceva, voi non cambiate affatto la persona, non cambiate né la vita né la persona».
In questo tragitto s’avvicinò al Giornale, o piuttosto s’avvicinò a Indro Montanelli che dei fasti e nefasti comunisti era curiosissimo, e che aveva sempre letto con attenzione ciò che Caprara andava narrando e commentando. E poi a Indro piacevano i convertiti - essendolo stato lui stesso - quando erano in buona fede e sapevano presentare il loro cambiamento in maniera «interessante». Volle arruolare Caprara, nel 1986, e non ebbe motivo di pentirsene. La collaborazione di Caprara al Giornale fu assidua, molto apprezzata da Indro e utilissima. Quando capitava un fatto o un lutto che riguardasse gli anni del comunismo, in particolare quelli in cui Massimo Caprara era stato al fianco del Migliore, ricorrere a lui era automatico: e non si faceva pregare.
Col tempo aveva maturato idee che da una parte curiosamente lo avvicinavano ai fautori dello «scontro di civiltà» (c’è l’asse islamico e c’è l’asse cristiano di Bush e Putin), e da un’altra lo portavano a rivalutare l’epoca della Guerra fredda quando i comunisti erano seri e i conservatori anche. E Togliatti sapeva essere pragmatico quanto il più cotennoso conservatore.

Sulla sua straordinaria esperienza umana e intellettuale, Caprara ha pubblicato molti libri penetranti e innumerevoli articoli e saggi. A essi dovrà sempre riferirsi chi si occuperà, negli anni e decenni futuri, di comunismo, di anticomunismo e di politica in generale. Caprara era e rimane nelle sue opere un riferimento importante e indispensabile.

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