Senato costretto alle ferie per non far cadere Prodi

In questi mesi ha fatto più miracoli Anna Finocchiaro al Senato che gli chassepot di Napoleone III. La battagliera capogruppo dell’Ulivo a Palazzo Madama è temuta dai suoi e ammirata dagli avversari. Silvio Berlusconi in primis, che rimpiange di non averla nella Casa delle libertà. Per forza. Con pugno di ferro in guanto di velluto, ha impedito che la baracca del centrosinistra crollasse rovinosamente a terra e il governo Prodi ne facesse le spese. Ma anche gli eroi a volte sono stanchi. E si vede. In una intervista al Corriere della Sera dell’11 febbraio questa distinta e affabile magistrata prestata da lunga pezza alla politica non ha potuto nascondere di essere in preda a una crisi di nervi. Perché va bene reggere l’universo come Atlante, ma alle lunghe la fatica si risente.
Così la Finocchiaro ha avuto non una ma addirittura due belle pensate. La prima, chiudere a doppia mandata i portoni del Senato e buttare le chiavi nel Tevere. Già dall’inizio della legislatura i senatori se ne stanno con le mani in mano, con il governo che teme a ogni voto di andare sotto, per cui meno il Senato si riunisce e meglio è. Donna Anna ora propone che per due settimane lavorino le commissioni, per una settimana l’assemblea di Palazzo Madama e per l'ultima settimana i nostri beneamati rappresentanti, con contorno di senatori di diritto e a vita, si riposino dopo tanto stress.
La seconda bella pensata certo non sfigura rispetto alla prima. Dice infatti che «nella sinistra radicale ci sono singole sensibilità particolari». Basta che alcune «sensibilità particolari» remino contro, perché tutto vada a catafascio. A questo deplorevole stato di cose quale rimedio propone questo generale in gonnella? Una pecetta. «Penso che in un bipolarismo adulto, su certi temi, eventuali divergenze di singoli non dovrebbero essere considerate essenziali per la vita di un governo». Chiaro, no? Comunque sia, repetita iuvant. «Perciò, se due parlamentari qualunque, che sono minoranza nel loro partito, decidono di attenersi non alla disciplina del gruppo e della coalizione, ma all’organizzazione internazionale pacifista di cui fanno parte, questo non dovrebbe incrinare la tenuta del governo».
Lo stesso giorno, 11 febbraio, si esibisce sul Messaggero un altro diessino, Vannino Chiti. Il ministro per le Riforme costituzionali non ha molto da fare, è fresco come una rosa e ragiona come un libro stampato. Il dibattito parlamentare sulla politica estera? Dovrà concludersi con solo due righe di approvazione dell’operato del governo. Altrimenti, lascia intendere, saranno guai. I Dico non passano in Parlamento? Nessun problema. Non afferma forse la Costituzione che il voto parlamentare contrario su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni? Ma qui, con rispetto parlando, casca l’asino. Perché non si tratterebbe di una bazzecola ma di un punto qualificante del programma. E, alla luce dei precedenti, il governo non potrebbe per decenza far finta di niente.


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