Sesso debole e penna forte

«Mi sentii molto più agile/ del solito e il mio volto/ era mutato e indurito/ e la mia voce era diventata profonda/ e il corpo più forte e snello,/ ma dal dito era caduto l’anello/ che Imeneo mi aveva donato./ ... Mi ritrovai con un animo forte e ardito,/ di cui mi stupivo, ma capii/ di essere divenuta un vero uomo». La signora che scrive così non è una virago dai costumi ominizzanti, bensì una bella ragazza sui venticinque anni. È vedova da poco. Ha tre bambini e una madre da mantenere. Fino ad allora, è stata il classico angelo del focolare. Dolcissima con il marito, Etienne de Castel, notaio e segretario del re di Francia Carlo VI. Brillante con gli ospiti. Sensibile al bello e affascinata dalla cultura.
Nata a Venezia nel 1365, figlia di Tommaso da Pizzano, dottore all’Università di Bologna poi trasferitosi a Parigi nel dicembre del 1368 per ricoprire l’incarico di consigliere di corte, nonché di medico e astrologo ufficiale, nel 1390 la soave Cristina si trova a fronteggiare una sorte avversa. Ingaggia battaglie legali, difende i propri averi e il proprio voto di castità dagli avvoltoi che le svolazzano intorno, si chiude nel proprio dolore. E, soprattutto, impugna la penna come una spada a tutela degli ideali cavallereschi che vede minacciati. È lei la prima scrittrice femminista «militante». È lei la Giovanna d’Arco delle lettere, in fiera lotta contro gli invasori che vogliono radere al suolo l’etica dell’amore e dell’onore, i costumi morigerati, l’istituzione della famiglia.
Nella biografia di Cristina uscita da Jaca Book nel 1996, Régine Pernoud delinea così il nuovo mondo con cui la nostra eroina si scontra: «Al regno del cavaliere succede quello del professore, dell’intellettuale che tiene a sottolineare le distanze con quelli che non hanno avuto accesso a quel sistema di astrazioni, di definizioni e di principi che è il suo: le donne, il popolo, insomma tutto ciò che non c’entra con l’università \. Università e Parlamento saranno, con l’appoggio della monarchia, i pilastri e anche la giustificazione del regime della Legge. Il tempo di Cristina è quello in cui la consuetudine - gli usi vissuti, la Tradizione nel senso forte del termine - a poco a poco cede il passo alla Legge». Emblematico di questo rivolgimento, e in particolare della dittatura del maschio intello di regime, è l’acceso dibattito che tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo si ingaggia a proposito di un’opera singolare, il Roman de la Rose. E al quale, ovviamente, Cristina partecipa con piglio tutt’altro che da donnetta.
I primi 4058 versi del poema, scritti da un non meglio identificato Guillaume de Lorris intorno al 1225-30, sono una sorta di compendio dell’amore cortese: una trattazione, verrebbe da dire, proprio... all’acqua di rose che s’interrompe bruscamente. Ebbene, circa quarant’anni dopo il chierico Jean de Meun vi aggiunge circa 18mila versi dall’orientamento opposto. Al bando i buoni sentimenti, la Vergogna, il Timore, la Maldicenza, dice Jean, la donna è un flagello dell’umanità, porta l’uomo alla rovina, lo fa andar fuori di senno, lo spoglia dei suoi averi. Ogni lasciata è persa, ammonisce il professorino, se sei furbo, caro lettore, salta addosso alla prima che ti capita a tiro, e poi alla seconda e alla terza, ma bada bene a non farti abbindolare da promesse e piagnistei, perché la donna è diabolica, soprattutto quando pare angelica. In men che non si dica il Roman de la Rose diventa un best seller assoluto. Tutti lo leggono, tutti ne parlano. Il tono decisamente hard, con disquisizioni sugli organi genitali maschili e femminili (sì, la rosa è proprio quella cosa là che già era stata cantata da Ciullo d’Alcamo, quel tesoro ben custodito dalle signore sotto lunghe e pesanti gonne...) e le invettive rivolte alle donne meretrici e agli uomini babbei, fanno la sua fortuna, se ne contano centinaia di codici, custoditi in varie biblioteche.
Ma si è mai visto un best seller che dura oltre un secolo? No, non si è mai visto. L’unico caso è proprio questo. Perché quando, sul finire del XIV secolo, il poema della rosa finisce nelle mani dell’acuto intellettuale Jean de Montreuil, questi si affretta a scriverci sopra un trattato (purtroppo perduto) «innocentista», anzi, decisamente entusiasta, sia della forma, sia del contenuto. E qui entra in scena la nostra Cristina, da alcuni anni ormai donna di lettere a tutto tondo (dal 1399 al 1405 scrive almeno quindici libri). Paladina dei «colpevolisti», con acutezza d’ingegno e costanza, utilizzando anche le armi della retorica, non le manda a dire ai «rodofili» come de Montreuil e i fratelli Gontier e Pierre Col. È una tigre, la vedova de Castel, graffia e azzanna nelle parti intime i parrucconi progressisti, i quali non disdegnano di minacciarla fino al punto di accusarla d’eresia. Ora che Il Dibattito sul Romanzo della Rosa sta per andare in libreria (dal 3 maggio, editrice Medusa, traduzione e cura di Bianca Garavelli) nessun lettore contemporaneo, fosse anche il più incallito dei puttanieri, potrà negare che la vincitrice morale della disfida è lei, la donnicciuola che osò sfidare i dottori del tempio della cultura, quell’università che pretendeva di dettare la linea al colto e all’inclita.
Non conosciamo la data precisa della morte di Cristina.

Sappiamo tuttavia che la sua ultima opera fu un Ditié, un elogio di un’altra ragazza coraggiosa, la pulzella d’Orléans, che l’8 maggio 1429 fece fuggire gli inglesi con la coda fra le gambe. «E tu Carlo, re dei Francesi, settimo di codesto nome... per grazia di Dio, ora vedi la tua fama in alto levata dalla Pulzella che ha soggiogato sotto il tuo pennone i tuoi nemici: è cosa mai vista».

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