La sfida di Forza Italia: unire moderati e radicali

In Occidente (si considerino anche solo negli ultimi giorni il referendum scozzese e le elezioni svedesi) a venti anni dalla fine della Guerra fredda alcuni equilibri fondamentali stentano a consolidarsi (da qui lo scatenarsi dello jihadismo, la pervasività cinese, gli eccessi da globalizzazione sregolata, l'11 settembre 2001, la crisi del 2008, quella da debito sovrano del 2011). Da qui corrispondentemente la tendenza in Occidente delle forze di centrodestra a dividersi tra aree moderate e aree radicali, mentre tra le sinistre pare prevalere una sorta di torpida inconsistenza (da Barack Obama a François Hollande).

Questo processo (divisione del centrodestra e parallela fragilità della sinistra) logora lo Stato democratico debilitandone la partecipazione popolare e finendo così - come sappiamo bene in Europa - per esaurirne le funzioni in mediocri visioni bottegaie. Chi riflette sul futuro di Forza Italia è bene che parta da qui e da quando Silvio Berlusconi, innanzi tutto con il suo spirito pratico, nel 1994 federò il centrodestra compresi i «radicali» della Lega e del Msi. Questo asse tra moderati e radicali lanciato venti anni fa ha, nonostante tutto, aiutato la nazione a evitare guai maggiori ed è stato messo in crisi solo con un vero commissariamento dall'estero, realizzato dal governo Monti nel 2011. Oggi si parla per lo più della «rivoluzione liberale berlusconiana» inadeguatamente realizzata nei nove anni di governo post '94: ma anche l'affermarsi per la prima volta nella storia nazionale di una forza rivoluzionariamente liberale, centrata sui cittadini piuttosto che sulle élite è stata possibile per lo sforzo «federatore», anteponendo le esigenze unitarie a quelle di questa o quella nomenklatura. Il posizionamento «liberale e federatore» ha poi consentito a Berlusconi un ruolo internazionale influente come quello dei momenti migliori della Prima Repubblica (da Amintore Fanfani a Giulio Andreotti, fino a Bettino Craxi e Gianni De Michelis): per sradicare questa «politica» estera ci è voluto un lavorìo di settori dello Stato coordinato con chi voleva sottometterla (come racconta anche il certamente non berlusconiano ex segretario del Tesoro obamiano Timothy Geithner).

Di fronte agli sbandamenti odierni, dalla Libia all'Ucraina, all'impasse dell'iniziativa dell'Unione (dove spicca solo un Mario Draghi peraltro nominato anche grazie alla «politica estera» berlusconiana), non solo in molti stanno rivedendo i giudizi sul ruolo del leader di Forza Italia, ma anche un uomo di sinistra come Matteo Renzi ne trae qualche ispirazione. E così avviene anche su un altro terreno fondamentale, quello della riforma dello Stato. Dopo il fallimento dell'amletico Massimo D'Alema che nel 1998 buttò via l'occasione della Bicamerale, dopo che Enrico Letta pensava di riformare lo Stato avendo sgomberato la scena manu militare da Berlusconi, oggi con il patto del Nazareno si è compreso come questo impegno fondamentale per l'Italia (la crisi dello Stato, di una Costituzione in parti fondamentali coerente alla fine di un'emergenza internazionale, determinata dalla Guerra fredda, è la «base» non l'effetto della nostra crisi politica ed economica) non può essere intrapreso senza il movimento berlusconiano.

La politica non sono solo le formulette ideologistiche (neanche quelle spesso «benedette» liberistiche), ma è la comprensione dei compiti storici che chi si impegna in un partito - come si fa a Sirmione - si trova ad affrontare, consapevole che molti indirizzi decisivi sono stati impostati (con tutti i loro limiti) dal movimentismo berlusconiano.

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