Sfida a Putin: kamikaze nel metrò di Mosca

La firma non c’è ancora. E forse non ci sarà mai. Ma poco importa. Certi attentati non hanno bisogno di rivendicazioni. Parlano da sé. E le caratteristiche delle esplosioni di ieri mattina nel metrò di Mosca lasciano poco spazio ai dubbi. La matrice è cecena. Con un forte significato simbolico. Non tanto perché sono state usate due donne-kamikaze (non è la prima volta), quanto per la tempistica e la scelta dei luoghi.
Chi segue da vicino le vicende russe aveva l’impressione che la Cecenia fosse stata davvero normalizzata e che la morte nel 2006 del capo più vendicativo e sanguinario dei separatisti ceceni li avesse privati del loro elemento più pericoloso, ovvero del Grande Vecchio del terrore, che aveva progettato sia il sequestro degli spettatori al teatro Dubrovka a Mosca, sia l’assalto alla scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord. La sua scomparsa, a quanto pare accidentale, era coincisa con l’avvio di un pesante e capillare repulisti nella Repubblica cecena, condotto dall’esercito russo per conto del leader locale, il fedelissimo Khadirov junior.
I 38 morti e i 64 feriti di ieri hanno un solo scopo: dimostrare al mondo che i ceceni non si sono arresi e che sono così potenti da poter colpire i russi nel cuore della capitale, come peraltro aveva annunciato il nuovo capo dei ribelli Doku Umarov, il mese scorso, quando aveva avvertito il Cremlino «che il sangue non sarebbe stato versato più solo nel Caucaso», e che «la guerra sarebbe arrivata nelle città russe».
Il primo ordigno è esploso alle 7.52 del mattino (le 5.52 in Italia) lungo la linea rossa, alla fermata Lubianka, in pieno centro, sotto la sede dei servizi segreti, che un tempo si chiamavano Kgb e ora Fsb. La Lubianka è da sempre il simbolo della repressione dello Stato russo, bolscevico prima, putiniano ora. E Putin - che pur non essendo più presidente è ancora primo ministro - è un ex agente del Kgb. Quella bomba era metaforicamente rivolta proprio al leader che ha fatto carriera «grazie» alla Cecenia.
Fu proprio lanciando una durissima offensiva contro Grozny, nel 2000, in risposta ad attentati devastanti e misteriosi contro interi palazzi in diverse città russe, che l’allora semisconosciuto Putin ottenne visibilità e un consenso plebiscitario tra gli elettori. Sono passati dieci anni e la questione, contrariamente a ciò che sperava il Cremlino, non è ancora risolta. Forse non lo sarà mai, se si considera che la Cecenia fu invasa da Pietro il Grande nel 1770 e da allora i suoi abitanti hanno rifiutato di farsi assimilare. Combattono da 240 anni, generazione dopo generazione. Di loro parlò addirittura Tolstoj, che descrisse la loro caparbietà in termini che risultano ancora straordinariamente attuali.
La seconda esplosione di ieri si è verificata alle 8.40 alla stazione di Park Kulturi, di fronte a Gorky Park, sulla stessa linea scarlatta, la Krasnaja Strela - Stella Rossa - dal nome del treno diretto da Mosca a San Pietroburgo, la città natale di Putin. In questo caso il simbolismo è indiretto, ma comunque impressionante. Nonostante l’allarme e i disagi provocati dalla prima esplosione, i terroristi sono riusciti a colpire una seconda volta, seminando morte tra i passeggeri e panico, insicurezza, angoscia nella popolazione russa. Le immagini rilanciate dalle tv hanno accentuato questi sentimenti, giocando ancora una volta a favore dei terroristi.
Putin ha interrotto il viaggio nella città siberiana di Krasnoiarsk ed è tornato a Mosca. Com’è nel suo stile ha promesso che «i terroristi saranno scoperti ed eliminati». Ma questa volta l’impresa sarà ardua e non solo perché gli indizi di partenza delle indagini appiano deboli. Le telecamere di sicurezza avrebbero individuato alcune donne dai tratti slavi che avrebbero accompagnato le due kamikaze, assieme a un uomo con la barbetta, che indossava una giacca blu e un cappello da baseball.
Il quadro politico nel Caucaso è molto diverso rispetto a qualche anno fa. Perché i ribelli cacciati dalla Cecenia si sono riversati nelle vicine Inguscezia e Daghestan, destabilizzandole.

Con un obiettivo ancor più ambizioso: cacciare i russi dal Caucaso e imporre un califfato islamico basato sulla Shaaria.
Uno scenario che ovviamente il Cremlino non può nemmeno contemplare. La guerra, insomma, continua.

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