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Sharon, medici in allarme: nessun miglioramento

Le condizioni del premier «sono gravi ma stabili» ripetono in ospedale. Ma il suo corpo non si riprende e cresce la preoccupazione

Luciano Gulli

nostro inviato a Gerusalemme

Si punta a minimizzare, ricorrendo alla solita formula anodina («condizioni gravi ma stabili»). Eppure dev’essere accaduto qualcosa, a metà mattina, che ha fatto temere il peggio ai medici che hanno in cura il premier Ariel Sharon. Qualcosa che ha a che fare con la terapia o meglio con la riduzione della terapia a base di anestetici e sedativi somministrati al vecchio comandante. Come se i clinici si aspettassero una serie di segnali di ripresa dell’attività cerebrale che invece non sono venuti.
«I medici sono molto preoccupati», riferiva intorno a mezzogiorno radio Gerusalemme, ripiombando il Paese nel pessimismo della settimana scorsa, quando sembrava che la scomparsa del vecchio leader fosse questione di ore. «Il momento della verità sembra avvicinarsi», ha detto a un certo punto lo speaker alla radio, come se si volessero preparare gli animi al peggio. Poi, nel pomeriggio, una schiarita. Non siamo di fronte ad alcunché di allarmante, fanno sapere dall’ospedale Hadassah. «Le condizione del premier restano invariate». Gravi ma stabili, appunto.
Così rincuorati, gli israeliani hanno ripreso a seguire con un po’ di ritrovato interesse il dibattito politico e l’andamento del barometro. Da cinque giorni, fatta eccezione per qualche breve pausa, sulla Palestina non fa che piovere. E la pioggia è sempre una benedizione per queste terre arroventate dal sole per molti mesi dell’anno.
Con interesse, e con una certa ansia, si guarda da sotto gli ombrelli alle imminenti elezioni palestinesi e al potenziale successo che secondo i sondaggi arriderebbe ai candidati di Hamas. Un successo che, è il timore di molti, aggraverebbe il caos e l'anarchia a Gaza e nei Territori, segnando di fatto la fine dell’Autorità nazionale palestinese tenuta insieme con la colla dal presidente Mahmud Abbas. Per non dire dell’influenza che l’Iran, se vincesse Hamas, acquisterebbe nella regione. Di questo il primo ministro ad interim Ehud Olmert ha discusso con i due inviati del Dipartimento di Stato Usa a Gerusalemme, Elliott Abrams e David Welch, che erano accompagnati dall’ambasciatore americano in Israele Richard Jones. E questo, prevedibilmente, sarà il leit-motiv dei colloqui che Olmert e l’intramontabile Shimon Peres avranno prossimamente a Washington con il presidente Bush.
La decisione di consentire il voto palestinese a Gerusalemme est è stata severamente criticata dal Likud, che la considera un cedimento all’idea di una divisione politica della città santa in una prospettiva non poi così lontana. Ma è un cavallo di battaglia, quello cavalcato da Netanyahu, che non tiene conto dei sentimenti della maggioranza della popolazione, che appoggiando il partito recentemente fondato da Sharon, Kadima, mostra di condividere una linea politica centrata sul raggiungimento della pace con i palestinesi anche a costo di dolorosi compromessi. Ieri il governo guidato da Olmert ha incassato senza scosse le dimissioni del quarto ministro del Likud, Silvan Shalom, che per disciplina di partito, ma non senza polemiche, ha obbedito all’«ordine» impartito da Netanyahu.
Sale intanto la tensione fra opposte fazioni palestinesi in vista delle elezioni del 25 gennaio. Una violenta rissa, accompagnata da vicendevoli minacce di morte, è scoppiata nel campo profughi di Kalandya, vicino Ramallah, tra sostenitori di Hamas e di Al Fatah. Mentre tre uomini che l’altro ieri avevano sparato numerosi colpi di pistola contro gli uffici del premier Abu Ala e la residenza del primo ministro (rei di non aver ingaggiato gli sparatori nelle forze di polizia) sono stati arrestati. Una turbolenza crescente che rivela tutta la debolezza del presidente dell’Anp.

E che ha indotto l’Unione europea a sospendere temporaneamente il flusso di aiuti diretti alle agenzie dell’Onu, alla Croce rossa e a diverse organizzazioni non governative internazionali impegnate nelle aree più a rischio.

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