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Sharon «premier ideale» anche per i laburisti

Il 67% del partito approva la scelta di restare al governo con il «nemico». E sette israeliani su dieci si sentono più al sicuro con lui che con altri leader

R.A. Segre

Giovedi scorso, nel giorno del pentimento, il Kippur, si è concluso l’esame di coscienza che l’ebraismo impone annualmente ai suoi fedeli. A giudicare dai sorprendenti risultati di due inchieste demoscopiche pubblicate dai quotidiani Yediot e Ma’ariv l’esame sembra aver toccato anche la coscienza politica dell’elettorato. Il primo, condotto fra gli iscritti del partito laburista, rivela che il 67% degli intervistati chiede al partito di restare nella coalizione di destra guidata da Sharon. I probabili risultati delle prossime «primarie» del partito darebbero il 40% dei consensi a Shimon Peres, suo inossidabile leader, e sostenitore della permanenza del partito nel governo, contro il 23% dei consensi per il suo concorrente, il leader sindacalista Peres che si oppone alla politica economica e sociale del governo. Questo nuovo feeling fra avversari storici si spiega anzitutto col fatto che secondo Ma’ariv se si tenessero oggi le elezioni il Likud guidato da Sharon otterrebbe 38 seggi al Parlamento contro i 24 dei laburisti guidati da Peres. Se i due partiti invece fossero guidati da altri leader (Netanyahu per il Likud, e Peres per i laburisti) i consensi sarebbero quasi dimezzati. Altro elemento significativo di questa inchiesta è che mentre «solo» il 46% degli israeliani sono soddisfatti di Sharon ben il 67% si sente più sicuro con lui che con qualsiasi leader. Ed è questo sentimento di fiducia conta in politica.
Ci sono poi ragioni che le inchieste non rivelano. La prima è che Sharon rimane - nonostante i suoi allineamenti sulle strategie espansioniste del Likud - un tipico rappresentante del laburismo sionista. Fa parte di quella «plantocrazia» - la notabilità pioniera agricola combattente della Palestina ebraica - che ha costruito lo Stato e fissato molti dei suoi comuni valori. C’è poi la sfiducia della gente per tutti i partiti e un profondo disprezzo trasversale contro almeno metà dei 120 deputati che compongono il Parlamento unicamerale israeliano. Sharon ha potuto evacuare i coloni da Gaza nonostante l’opposizione del suo partito, del suo governo di destra, di buona parte del Parlamento perché la minaccia di anticipare le elezioni ha spaventato tutti i deputati. Allo stesso tempo il Likud è conscio che senza di lui la sua maggioranza relativa al Parlamento crollerebbe. Non bisogna credere che il popolo d’Israele si sia improvvisamente spostato a sinistra con il suo sostegno alla politica «anticoloniale» di Sharon a Gaza. Tutt’altro. Se il 59% degli interrogati sostiene questa politica per la striscia di Gaza il 68% resta a favore del mantenimento delle installazioni ebraiche in Cisgiordania. L’elettorato israeliano sembra cosi volere due cose: autorità e speranza. Sharon è in grado di garantire la prima, tanto verso l’interno quanto verso l’estero, come dimostra l’accoglienza dell’Onu, il primo investimento arabo di 5 milioni di dollari del Qatar in Israele per la creazione di uno stadio in un villaggio arabo e la mano dura col terrorismo palestinese. Quanto alla speranza di pace e di progresso, specie dopo il fallimento della sinistra negli accordi di Oslo e l’assassinio di Rabin, dieci anni fa, quella, Israele sembra averla persa dai tempi di Ben Gurion. In Sharon molti israeliani vedono un secondo Ben Gurion, dotato dello stesso autoritarismo (gli intellettuali israeliani lo accusavano negli anni Sessanta di essere un fascista) e della stessa dedizione e fiducia nella causa sionista. Con una differenza: l’integrità personale mai messa in dubbio nel caso di Ben Gurion al contrario di quello che è capitato a Sharon.

Ma nell’attuale Israele, arricchito, capitalista, insensibile alle differenze sociali, con forti segni di corruzione nelle istituzioni, chi tra i politici non è colpevole scagli la prima pietra.

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