Ha sperato di alzare ancora le mani tagliando un traguardo, in segno di vittoria, ma non gli resta che alzarle in segno di resa, per l'ultima volta. A una certa età, i problemi diventano macigni. E questo dell'inchiesta spagnola, per Jan Ullrich, si è trasformato in una frana. A vent'anni si possono aspettare tempi migliori, ma dopo i trenta no. Non c'è più spazio per le illusioni. Se e quando arriverà mai la riabilitazione, sarà comunque troppo tardi. Tanto vale arrendersi all'evidenza e togliere il disturbo, una volta per tutte.
L'annuncio è cosa fresca, ma già si diffonde l'aroma strano della malinconia. Il nome Ullrich, nella storia dello sport, si porta dietro alcuni flash inconfondibili e indimenticabili.
Ullrich è prima di tutto la grande spalla di Armstrong e di Pantani. Si può dire anzi che senza di lui, senza cioè un battuto del suo livello, neppure i trionfi francesi delle due star si porterebbero appresso tanto prestigio. Ullrich non è un condannato alla vita da mediano, come i Chiappucci o i Poulidor: è a sua volta un fuoriclasse, però nato nel periodo sbagliato. È più Gimondi. Basta vedere i suoi risultati, sulle strade del Tour ma anche della Vuelta, del Mondiale e delle Olimpiadi, per capire che il tedesco non è un semplice sparring-partner incassatore. Non è Gianni Agus: è a sua volta un Vianello o un Tognazzi, vale a dire un talento naturale chiamato a recitare di volta in volta il ruolo del contraltare, tenendo altissimo il tono del duetto.
Ullrich è poi tante altre cose. È il ciccione che all'uscita dall'inverno si presenta tassativamente con cinque, otto, dieci chili di adipe da smaltire, opulento risultato delle amate libagioni, ben irrorate di vini e di birra. Eppure, con quel suo incredibile fisico a fisarmonica, nel giro di qualche settimana riesce ogni volta ad affrontare il Tour in forma accettabile, o quasi, finendo regolarmente in crescendo, questa volta però solo come rendimento, tanto da suscitare l'immancabile domanda: che avrebbe fatto, se fosse arrivato magro già il primo giorno?
Ullrich, ancora, è il gigante tontolone che letteralmente butta dalla finestra il Tour del 1998, quello epico di Pantani, facendosi rifilare una decina di minuti nella sola tappa del Galibier: grande e grosso com'è, va letteralmente in ansia per via del freddo, sbaglia a vestirsi e ad alimentarsi, finendo tramortito dalla forza e dall'astuzia del minuscolo italiano di Cesenatico. Si diceva il giorno prima: soltanto con un crollo impensabile, di proporzioni inusitate, potrebbe perdere il Tour. Ci riesce.
Ullrich è il campione, assieme e comunque più ancora di Zabel, capace di scatenare un enorme boom di popolarità e di pratica del ciclismo in Germania. Con la sua esplosione, negli anni Novanta, un Paese che aveva ben altre tradizioni sportive scopre improvvisamente l'emozione delle corse e il piacere della pedalata, così da diventare nel giro di poche stagioni il mercato più fiorente d'Europa. Memorabile l'anno in cui Ullrich, al culmine della popolarità, riesce a scavalcare addirittura Schumacher nelle classifiche di affetto tra i tifosi tedeschi, come documentato da immancabili sondaggi.
Ullrich è lo specialista irresistibile della cronometro, è il mastino inaffondabile delle montagne, ma è pure la testa quadra nel comprendere velocemente le sofisticate strategie di corsa.
Ullrich è però lo sportivo che al Tour 2003, sui Pirenei, butta via la maglia gialla per fermarsi ad aspettare Armstrong, gettato a terra da un tifoso. Insultatissimo da compagni e sponsor, della scelta non si pentirà mai. E forse questo vale persino più del gesto.
Ullrich è introverso. Ullrich è facile a smarrirsi. Ama mangiare, e questo lo si intuisce ad ogni primavera, ma purtroppo anche il bere e la vita notturna. Una volta viene pizzicato con un controllo a sorpresa: ecstasy. È lontano dalle corse, non serve certo a vincere. Racconterà d'essersi buttato un po' via, per paura di non guarire più da un brutto intervento al ginocchio.
Ullrich è questo e altro ancora. Ora è un uomo molto ricco, però molto triste.
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