Silenzi, buio e montagne sotto 4.000 metri d’acqua: ecco dove si cercano i resti

Silenzi, buio impenetrabile, catene montuose più alte delle Alpi, con ampie valli e dirupi scoscesi, a una pressione tale che sgretolerebbe perfino un transatlantico come il Titanic. È qui, tra profondità da 20mila leghe sotto i mari, che le squadre dei soccorritori dovranno recuperare pezzo dopo pezzo il relitto del volo Af447 per poter mettere assieme gli indizi che spiegheranno che cosa è successo quella notte nei cieli sopra l’Atlantico.
Non sarà un’operazione facile e il tempo non gioca a favore dei ricercatori e delle loro tecnologie. Le navi della marina militare brasiliana hanno iniziato a raccogliere parti della fusoliera del velivolo, trovate a 650 chilometri dalle coste sudamericane. Ma il resto dell’aereo potrebbe trovarsi sparpagliato in una zona vasta centinaia di chilometri. Venti e correnti non aiutano le operazioni, rese più difficili dal maltempo. I ricercatori, però, non hanno molto tempo: restano meno di 30 giorni prima che le due scatole nere smettano di «parlare», emettendo suoni che servono proprio al loro ritrovamento. È in quei dispositivi indistruttibili, che forse ora si trovano su fondali tra 4.000 e 7.000 metri, che si nasconde il mistero del volo Air France. Per alcuni esperti, però, potrebbe perfino essere impossibile ritrovarli.
Raramente, in caso di incidenti aerei, sono state effettuate operazioni di recupero a queste profondità: i resti del volo della Twa, che s’inabissò a largo di Long Island nel 1996, furono localizzati a meno di 100 metri sotto il livello del mare; i rottami dello Space Shuttle Challenger a largo della Florida furono ritrovati a 300 metri sotto le acque. Portelloni, scalette, ali, cabina di pilotaggio: quel che resta del volo dell’Air France potrebbe trovarsi invece a 7.000 metri sotto la superficie. E, a diversi giorni dall’incidente, non si sa ancora dove con esattezza focalizzare le ricerche. Spiega Dave Gallo, direttore delle operazioni speciali al Woods hole oceanographyic institution del Massachusetts, che il primo passo è proprio l’individuazione di un punto approssimativo in cui iniziare a cercare. «Altrimenti è come cercare un ago in un pagliaio». L’Oceano e le sue tempeste possono nel frattempo allontanare i rottami, ma tramite sofisticate apparecchiature e la conoscenza di venti e correnti è possibile tracciare mappe e ritrovare pezzi. Sotto la superfice, invece, si lavora con il sonar, tecnica che utilizza la propagazione del suono sotto le acque per rilevare la presenza e la posizione di imbarcazioni e disegnare cartine dei fondali, indicando dove si trovano zone montagnose, vallate, sabbia, roccia o relitti. «È come la scena di un crimine - dice Gallo -: occorre essere veloci e sperare che non inquinino le prove». Se non si delimita un’area di ricerca risulta quindi impossibile utilizzare qualsiasi tecnologia per setacciare chilometri e chilometri di fondale. Il Nautile, il sofisticato sottomarino francese che, a bordo della nave Pourquoi Pas, sta facendo rotta verso la zona, può navigare anche a 6.000 metri sotto la superficie del mare. Sono pochissimi i Paesi ad avere in dotazione apparecchiature simili: solo Francia, Stati Uniti e Giappone. A bordo c’è posto per tre persone e il sottomarino è costretto a tornare in superficie ogni 12 ore per rifornirsi di corrente elettrica.

Per questo motivo, spiega Gallo, in un caso del genere è più indicato l’utilizzo di robot, capaci di rimanere a grandi profondità anche per giorni, dotati di telecamere e macchine fotografiche digitali ad altissima risoluzione che riportano fedelmente a team tecnici in superficie ogni minimo dettaglio dei relitti posati sul fondo degli oceani, 20mila leghe sotto i mari.

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