Il «sindaco capoclasse» che sognava l’Africa lascia Roma in lacrime

L’ultimo giorno al Campidoglio inizia con le lodi all’opposizione e finisce alla Caritas, luogo simbolo del veltronismo. Archiviato il «librone» dei buoni propositi che terrorizzava gli assessori

da Roma

L’ultimo giorno da sindaco di Walter Veltroni si chiude fra le lacrime: «Per anni mi ero vantato di non aver pianto mai, invece ieri, - e forse anche oggi! - ho vanificato il fioretto di una vita... ». Due discorsi e due cerimonie, una in Campidoglio, davanti al Consiglio, l’altra alla Caritas, per l’inaugurazione dell’«Emporio della solidarietà», l’ultimo fiore all’occhiello del Veltro-mondo, «Una specie - come lo definisce lui stesso - di supermercato per i poveri». Due discorsi, due luoghi-simbolo del veltronismo, e poi commozione generale, emozioni bipartisan, regalini per gli assessori (libri e dvd), menzioni speciali per «il commesso che mi ha fatto da padre», e soprattutto addio al temutissimo «librone» su cui il sindaco annotava i lavori «da fare» e gli appuntamenti improrogabili della giunta.
Ieri l’Agi - al fatidico «librone» - dedicava giustamente un intero lancio di agenzia, perché tutti sapevamo che quando il sindaco lo sfoderava, partiva un rimprovero per qualcuno che non aveva «fatto i compiti». E così, «il librone», è il simbolo perfetto del «sindaco capoclasse», il sindaco paternalista ma pignolo. Il sindaco che si vanta di «stendere dei fili nella metropoli». Il sindaco che inizia il suo discorso di addio con l’elogio dei suoi avversari: «Fatemi cominciare ringraziando l’opposizione, che non è mai stata ostruzionistica, mai distruttiva».
Non è un omaggio rituale e nemmeno solo «autocelebrazione buonista». I cinque anni più due di Veltroni hanno sempre avuto modelli lontani universali e suggestivi: il kennedysmo, «la bella politica», i democratici americani, «il futuro africano», certo: ma poi una pratica molto, molto più domestica. «Ho guidato questa città come se fosse casa mia, la mia vita, la mia famiglia». Se ci pensi bene, proprio questo modello «utopico-familistico», rappresenta sia il punto di forza che la debolezza del «veltronismo reale». Non tanto per le dichiarazioni non realizzate, come quella storica che «dopo il Campidoglio andrò in Africa». Il tormentone africano iniziò sette anni fa come promessa per il ballottaggio scandita in un comizio davanti a Colosseo, ed è stato ripetuto fino alla noia, fino a un anno fa, quando ospite da Fabio Fazio calcò persino la mano: «Vedrete...». Adesso la versione ufficiale riveduta e corretta è: «L’Africa è comunque il mio futuro» (più o meno a settant’anni, a occhio e croce).
No, il vero interrogativo sul «veltronismo reale», nel giorno in cui si chiude l’epopea capitolina, è come funzionerà la trasposizione del modello su scala nazionale, nel Pd e nella campagna per le politiche. Per sette anni (lo ricorda lui ma ormai lo sanno tutti) Veltroni ha iniziato le sue giornate in Campidoglio di primo mattino: raffiche di telefonate, riunioni, decine di presentazioni, impegni pubblici, visite, sopralluoghi e contatti. Il veltronismo reale è stato un modello che non delegava mai nulla, una squadra forte perché gli assessori erano deboli e di fatto permanentemente «commissariati» dal sindaco e dal suo staff: dalla macchina da guerra veltroniana e dalla presenza discreta e pervasiva del suo alter ego Walter Verini. Per dire: il giorno in cui Veltroni accettava la sua candidatura a leader del Pd, il sindaco era in Campidoglio con l’assessora Coscia, a presentare i numeri degli asili. L’assessora diceva che i bambini assistiti erano aumentati sparando una cifra approssimata, il sindaco la bacchettava con amorevole spietatezza ricordandole il numero esatto fino all’ultima unità (trecento più di quelli che ricordava lei!). In questi anni la giunta è stata debole e il gabinetto del sindaco fortissimo. Ogni famiglia che subiva un lutto a Roma, per un incidente o per una disgrazia riceveva tempestivamente una chiamata del sindaco. E in questi anni è stato il sindaco ad avocare a sé la regia dei grandi progetti, dalle notti bianche, alle riaperture dei luoghi-simbolo: i cinema, la Casa del jazz, i piani di sostegno al commercio in periferia, le nuove metro (che però vedranno la luce fra tre anni). Poi magari un assessore programmava l’inaugurazione di un cantiere in via del Tritone il primo giorno di riapertura delle scuole e la la città andava in tilt. Dice Veltroni che Roma «ha le dimensioni, la popolazione e il prodotto interno lordo di uno stato». Vero. Ma intanto lui ha fatto il sindaco capoclasse, perché il Campidoglio è l’ultimo posto dove l’autorità può ancora essere esercitata senza delega. Magari c’erano le buche per strada, certo: ma Veltroni poi era uno che accompagnava le scolaresche ad Auschwitz o in Africa, uno che viaggiava sul torpedone, capace di chiamare gli studenti per nome o di affittare una sinagoga per il discorso preparatorio alla visita nel campo (che ovviamente faceva lui, con grande emozione di tutti). Veltroni è quello che va a trovare la madre del «cuore rosso» Valerio Verbano, e Anna Maria Mattei, madre dei «cuori neri» Stefano e Virgilio.


A Berlusconi è stato rimproverato di aver portato un modello aziendalista a Palazzo Chigi, ma Veltroni, in fondo, ha sostituito il modello del partito-Stato ds, con quello della «famiglia amministrativa» guidata dal leader indiscusso. Ora che fa il salto da una città che è «come uno Stato» a un paese «che non c’è», sarà curioso capire se c’è uno spazio per il premier «capoclasse».

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