da Roma
Il decreto Afghanistan è stato varato, scontando il dissenso annunciato di tre ministri: Prodi e DAlema hanno cercato fino allultimo di evitare questo danno dimmagine al governo, ma non è stato possibile. La linea comunque è quella di minimizzare lastensione di Ferrero, Bianchi e Pecoraro: «È un segno importante che nel Consiglio dei ministri non vi siano stati voti contrari», afferma il titolare dei Rapporti con il Parlamento Chiti.
Ora inizia quella che si preannuncia come una lunga e non facile trattativa parlamentare sul testo del decreto e su un parallelo ordine del giorno «politico» che lo accompagni, e che riesca a tenere insieme la maggioranza e ad arginare la fuga dei «dissidenti» dellala sinistra dellUnione. «Niente fiducia, non solo do per scontato che il centrosinistra sia unito, ma lavoro e credo che ci siano le condizioni per una larga convergenza tra maggioranza e opposizione», dice Chiti. Il clima però non è dei migliori. «Siamo stufi di ministri di lotta e di governo», protesta il capogruppo Udeur Fabris, «considerato lo sforzo al quale tutti i giorni siamo chiamati in Parlamento per sostenere lesecutivo». E conclude cupamente: «Di questo passo è evidente che il governo dellUnione non può che morire». Dallestremo opposto della coalizione gli fa eco Marco Rizzo del Pdci: «Sono molto preoccupato per la tenuta del governo, sulla politica estera è un errore andare avanti come un treno».
Lobiettivo principale da conquistare, di qui a marzo (quando il decreto sulla missione arriverà al voto delle aule parlamentari) è lautosufficienza della maggioranza. Ossia la certezza (oggi assai lontana) che il decreto passi al Senato grazie ai voti del solo centrosinistra, e che quelli della Cdl si rivelino aggiuntivi e non determinanti. Massimo DAlema lha messa sul tavolo come conditio sine qua non, facendo capire di essere pronto a dimettersi in caso contrario: «Non sono attaccato alla poltrona». E dai vertici di Rifondazione la palla è stata subito rilanciata: «L'autosufficienza in politica estera è una risorsa preziosa. Sono convinto che dovremmo lavorare per questo, come su tutti gli aspetti della politica di un governo, cercando una mediazione che però questa volta sia in grado di definire una via concreta di soluzione alla vicenda afghana», dice Franco Giordano. Il segretario di Rifondazione cerca di individuare i punti della possibile mediazione, e avverte che i fondi in più per la cooperazione civile non bastano: «Non è che si risolve mettendo sul tavolo un po di soldi», dice, «vogliamo che nel decreto sia inserito l'impegno del nostro Paese per una conferenza di pace». Pecoraro alza ulteriormente il tiro: «LItalia guidi un cambio di strategia a livello internazionale, questo va scritto bene nel decreto legge».
Ma il problema è che mentre gli stati maggiori di Prc, Pdci e verdi sono assolutamente pronti a votare il rinnovo della missione a Kabul e a non creare problemi al governo, le loro basi parlamentari, già in subbuglio per il caso Vicenza, non lo sono affatto. «Abbiamo fatto errori nella formazione delle liste elettorali, non controlliamo i nostri parlamentari», ha confidato lo stesso Giordano a Prodi, nellultimo incontro a Palazzo Chigi sul caso Afghanistan. E Pecoraro e Diliberto non sono messi granché meglio. I conti al Senato non tornano: cè la dissociazione aperta dei «trotzkisti» di Sinistra critica, che chiedono luscita del Prc dal governo (con almeno due senatori, Turigliatto e Haidi Giuliani). Cè quella di Fosco Giannini, del Verde Bulgarelli, dellex Pdci Fernando Rossi. Cè Claudio Grassi, sempre Prc e anche lui senatore, che liquida la via duscita indicata da Giordano: «Il problema non si risolve proponendo improbabili conferenze internazionali, ma con un preciso calendario di ritiro delle truppe».
E cè il leader Fiom Cremaschi che avverte: «La sinistra radicale condiziona sempre meno il governo: almeno sulla guerra votate contro».
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