Dopo aver mostrato (nell’articolo pubblicato ieri) come i «catto-comunisti» siano fuori dal tempo in cui tutti noi viviamo, dobbiamo parlare dei comunisti. Dei comunisti perché così allora si chiamavano. Per meglio giustificare la mia tesi faremo alcuni flash storici sino al 1989 che, con la distruzione del muro di Berlino, segnò l'improvvisa fine del comunismo in Russia e negli Stati un tempo satelliti.
Partiamo dal rapporto al Congresso del partito del suo segretario Nikita Krusciov, la cui pubblicazione irritò Palmiro Togliatti. Il Mulino organizzò subito un convegno, che venne introdotto da Franco Venturi, lo storico del populismo russo, al quale parteciparono Basso, Lombardi, La Malfa, Del Noce ed altri. Purtroppo il registratore non funzionava, ma ricordo benissimo l'intervento di Augusto Del Noce, il quale parlò della nascita di un comunismo aziendale, che amministra solo interessi. Quando c'era un contrasto fra la verità proclamata dal partito e la realtà si finiva per vivere nella menzogna. Una tesi analoga la troviamo negli scritti clandestini di Vaclav Havel, che nel 1989 diventerà Presidente della Cecoslovacchia.
L'insurrezione ungherese (1956) e la primavera di Praga (1968) non suscitarono nel Partito comunista italiano una vera discussione sul «Dio che ha fallito». Eppure l'esule Jiri Pelicàn in Italia aveva a lungo diffuso i principi del socialismo dal volto umano. L'Università di Bologna decise di dare una laurea ad honorem ad Alexander Dubcek; la cerimonia si svolse il 13 novembre 1988 anche in giardino per l'inaugurazione di una lapide. Il sindaco comunista fu così costretto a dare in tutta fretta la cittadinanza a Dubcek che voleva un socialismo dal volto umano contro la burocrazia autoritaria di Mosca.
Nel frattempo si moltiplicavano in Italia le iniziative per stanare i comunisti. Ne ricordo soltanto una: la Bicamerale del dissenso, promossa nel 1976 a Venezia da Ripa di Meana. Fu per me un'esperienza sconvolgente: a un profugo, perché dissenziente, Norberto Bobbio chiese quale programma aveva. Ci rispose che non aveva un programma politico; voleva solo avere la possibilità di esprimersi in modo autentico, di riconquistare l'autentico linguaggio, magari per scrivere una poesia. Anche lui non voleva vivere nella menzogna.
Nonostante tutti questi avvertimenti, che si erano verificati nel campo del socialismo, il Partito comunista italiano pensò a sopravvivere sino alla svolta della Bolognina (quartiere di Bologna), che si diede nel 1991, due anni dopo il crollo del Muro di Berlino.
Si cambiò soltanto il nome per restare sempre se stessi, con l'antica arroganza ostentando una superiorità etica: era proibito includere il comunismo nei regimi totalitari, non era corretto parlare dei crimini di Stalin, ci si indignava ricordare che sotto Mao i contadini affamati mangiavano i bambini. Si affacciavano al potere senza aver rinnovato la propria cultura, ferma però alla mistica antifascista.
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