da Milano
Un mito è tale quando impone il suo carisma. Quando imbonisce i fan adoranti parlando loro dei pericoli dellAids; quando entusiasma un pubblico assetato di rock con lincredibile complessità armonica delloriginale rilettura di Are You Experienced di Hendrix, dove «il mito» fa sfrigolare un indisciplinato clarinetto e improvvisa un racconto dai riflessi politici dedicato a Milano. Quel mito è Patti Smith, che allArena Civica di Milano straboccante di gente (è levento clou del Milano Jazzin Festival) ha chiuso trionfalmente il suo tour europeo.
Segaligna, segnata dal tempo eppur sempre sensuale, Patti vivere ancora e sempre il rock come il libro delle verità scomode, ora innalzando peana contro la guerra, ora raccontando i suoi squarci poetici (Kimberly, Dancing Barefoot) con i capricciosi sussulti della sua voce agra e raschiante. Sostenuta dalla vibrante chitarra di Lenny Kaye, dalla sua band e a sorpresa dal meraviglioso violoncello impazzito di Giovanni Sollima che dà un incredibile supporto ritmico a tutti i brani, Patti officia la sua messa profana. Da sacerdotessa ispirata (e sgamata) crea il giusto climax alternando i toni cupi di Wild Leaves a quelli esplosivi della rollingstoniana Gimme Shelter (grande versione dallalbum di cover Twelve); i tempi lenti della ballad We Three (dedicata ai tempi del CBGBs e a Tom Verlaine) a quelli ecumenici di People Have the Power.
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