Cultura e Spettacoli

Soldini racconta il precariato «Ma con un filo di speranza»

Presentato «Giorni e nuvole» con Antonio Albanese e Margherita Buy, entrambi convincenti

Soldini racconta il precariato «Ma con un filo di speranza»

da Roma

Una Genova dove i personaggi principali, affidati ad Antonio Albanese e Margherita Buy, ignorano lessico, abitudini, abbigliamento della locale borghesia imprenditoriale, alla quale dovrebbero appartenere; una Genova dove nemmeno la loro figlia ventenne (Alba Rohrwacher) è radicata, per non dire il suo fidanzato (Fabio Troiano); una Genova dove passano quaranta minuti prima che echeggi il rituale «Belìn!» e cinquanta perché spunti una «signora Parodi»... Eppure Giorni e nuvole di Silvio Soldini - presentato nella rassegna «Première» alla Festa di Roma - vale: ha solo i difetti tipici indotti dal richiamo di Film Commission generose.
Dunque Giorni e nuvole non è un disastro come Malèna, dove un soggetto pensato per il Veneto era trapiantato in Sicilia, ma non è nemmeno un'opera di Pagnol o Guédiguian, nella cui Marsiglia si muovono personaggi marsigliesi. E poi pensate: la Radio-tv della Svizzera Italiana (Rtsi) - che coproduce Giorni e nuvole - diffonderebbe mai un film girato a Bellinzona, se almeno i protagonisti non ne avessero l'accento? Ticinese, Soldini lo sa meglio di tutti. Comunque Giorni e nuvole è il suo film più maturo; Albanese e la Buy, con le loro solite maschere - moglie delusa, marito fallito - rendono più di quanto la sceneggiatura (di Doriana Leondeff, Francesco Piccolo e Federica Pontremoli e Soldini stesso) meritasse.
Signor Soldini, questo è il suo secondo film a Genova...
«... Dopo Agata e la tempesta, m'era rimasta voglia di tornarci.
Gli sceneggiatori preferivano Milano, ma in una città chiusa su se stessa la storia sarebbe stata claustrofobica. Preferivo che ci fosse il mare, dove spaziasse lo sguardo».
Spesso sfondo di polizieschi negli anni Settanta, Genova lo è stata raramente dopo di commedie e drammi.
«È una città molto cinematografica, capace di diventare essa stessa personaggio della storia».
Questa l'ho già sentita... Quanto sono durate le riprese?
«Quattro mesi, che ci hanno consentito di familiarizzare con la città».
Per gli interni ha usato la macchina da presa a mano, con lunghi piani sequenza.
«Volevo evitare, quando possibile, la tecnica del campo-controcampo e del montaggio. Volevo evitare che la messa in scena fosse visibile».
Agata e la tempesta era molto diverso.
«Infatti, da quell'opera corale e surreale volevo passare a una realistica, concentrata su personaggi agiati incorsi in una sventura».
Quando scopre che lui ha perso l'azienda, lei perde l'amore per lui.
«In sintesi. La commedia sentimentale s'alterna al dramma sociale: lui, come lei, si riduce al lavoro interinale. Capita a tanti quarantenni».
Lei ha voluto quarantenni agiati, con barca a vela, casa con vista, perfino una fresca laurea in storia dell'arte per lei.
«Personaggi che hanno avuto molto e hanno viaggiato molto, che ora si trovano bloccati, costretti alla periferia e al lavoro subalterno».
Lui pare risorgere...
«... Nel lavoro manuale, con due ex dipendenti, ha la sensazione di poter ricominciare. Poi c'è la ricaduta».
Fra ripresa e ricaduta, lei lo tradisce. Un omicidio-suicidio sarebbe stato coerente con la storia. Invece...
«... Sull'orlo del suicidio sono stato io, mentre scrivevamo la sceneggiatura. Situazioni e personaggi possono trascinare i loro autori».
Ma quel finale...
«... Sì, è stato difficile trovare un finale di speranza».
È un «Hollywood ending»!
«Non proprio. La scena finale ha un respiro diverso dal resto del film. Volevo i due immersi in un tempo sospeso».
Le premesse erano altre.


«Mi capita di vedere film drammatici che tali sono dall'inizio alla fine: si stenta a vedere un sorriso; a volte la vivo come una forzatura».

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