Cultura e Spettacoli

Solisti Veneti, mezzo secolo di magie del Settecento

Poco meno di cinquant’anni fa, parlavamo di malinconia e di poesia, e un amico mi disse all’improvviso: se vuoi capire come nella musica possano esserci poesia e gioia insieme, comprati il disco delle Sonate per Archi di Rossini eseguite dai Solisti Veneti. Chi sono? chiesi. Giovani, veneti, da vedere goliardi padovani, da ascoltare gente che ti risveglia la Venezia del Settecento. Chi li guida? Un raro caso di musicologo allegro: da vedere somiglia a un violoncello, da ascoltare è un insieme di sapienza e ironia con una voglia tutta sua di far festa; si chiama Claudio Scimone. Fui sùbito d’accordo: le Sonate di Rossini, scritte da ragazzino per i quattro archi che aveva disposizione, senza la viola e con il contrabbasso, eseguite da quel complesso d’archi, sembravano offrirci la bellezza del primo incontro con la vita. Da quel momento i Solisti Veneti diventarono miei compagni di cammino.
Ho raccontato un fatto mio, perché molti della mia generazione ne hanno vissuto uno simile. Colleghi e critici discussero a lungo le loro interpretazioni: vigeva il dogma che il Settecento si suonasse freddo, senza fare vibrare né gli strumenti né l’anima, e con calma. In loro invece tutto s’accendeva: gli allegri scatenati e balzanti, gli adagi come cantati in confessioni affettuose, e nella musica di Vivaldi dischiusi a tratti in indicibili malinconie lagunari, e ti sembrava averceli davanti, anche quand’erano in disco.
Ad averceli davanti davvero, accade molto di più. C’è un clima veramente di festa: quando alla fine d’ogni esecuzione il maestro Scimone si volta con il suo sorrisone pieno la gente si mette a gridar bravo, tutta contenta.
Sono avvenute scoperte e riflessioni filologiche e mode, si è conosciuto il fascino degli strumenti antichi, il gusto di accentuare in modo estremo i segmenti dei fraseggi e i contrasti fra i tempi del concerto, sono ormai tanti i complessi musicali ad avere bravura e successo nella musica del Settecento italiano. Ma la tinta speciale dei Solisti Veneti, che degli studi filologici hanno fatto occasione per far crescere la ricchezza della loro interpretazione senza snaturarne il carattere, ha insieme una sua felicità clamorosa e una intima segretezza. E ogni volta il concerto fa evento. Una volta a Padova eseguivano Tartini in Sant’Antonio e c’eran giovani pigiati nella basilica, fin nei confessionali. «E pensare che Tartini scrisse il Trillo del Diavolo convinto che il diavolo fosse il violino che lo distraeva dalla vita religiosa», borbottò con la cadenza veneta accomodante Scimone, come a dire: fìdati di che cosa pensano gli Autori.
Cinquant’anni sono passati dal loro primo patto, quando il loro notaio padovano chiese se non era esagerato parlare di diritti per tutt’Italia; ed han girato il mondo. La formazione si è via via rinnovata, ma il dna originario è rimasto inconfondibile. Specialisti del Settecento veneto, cui dedicano fra l’altro un incantevole festival annuale nei teatri e nelle chiese fascinose della regione, dall’inizio hanno immesso nei programmi la musica contemporanea, e hanno accumulato partiture dedicate a loro, ahimè non sempre a noi contemporanee quanto lo siano di fatto quelle di Vivaldi o di Albinoni. Son diventati specialisti di Rossini, alleati con la grande scuola belcantista di Marilyn Horne, Samuel Ramey, Rockwell Blake, June Anderson. Con loro Pier Luigi Pizzi ha aperto la strada alle grandi regìe barocche nell’Orlando Furioso di Vivaldi.
La lista di premi e benemerenze dei Solisti Veneti si perde a vista d’occhio. Guai però a parlar loro d’ufficialità. Sono altri tipi. Una volta, a un festival di musica contemporanea, non avendo più bis a disposizione, si misero a improvvisare, inventando un autore a cui attribuire il pezzo, certo Mazzucato. Per l’anno dopo ricevettero l’incarico di commissionare a Mazzucato un concerto intero. «Perbacco - chiedo - come avete fatto?». Scimone guarda avanti con la sua espressione più naturale: «L’abbiam fatto morire in circostanze oscure - poi ride -: in fondo tutti siamo effimeri».

Ma ormai da cinquant’anni sa che non è vero.

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