Paolo Brusorio
da Milano
«L'Italia resta sempre il Paese più amato dai tedeschi. A prescindere dai governi». Alla vigilia della madre di tutte le semifinali, il particolare merita di essere approfondito. Giovanni Di Lorenzo è nato a Stoccolma da padre italiano e madre tedesca. A 11 anni si è trasferito in Germania: ora ne ha 47 e da due è il direttore di Die Zeit, settimanale tedesco di ispirazione liberal. Insomma, se c'è un infiltrato speciale nella terra ti Cermania, questi è proprio lui.
«La vecchia immagine tutta spaghetti e mafia è scomparsa. Negli anni Ottanta i tedeschi cominciarono ad apprezzare i ristoranti italiani e la moda. Più tardi hanno scoperto che oltre a Rimini, cè anche la Toscana con i suoi casali da ristrutturare. E dopo Italia-Repubblica Ceca ho persino visto tedeschi al ristorante con indosso la maglia azzurra...».
Cucina, moda e paesaggio: il Belpaese non ha cambiato i connotati. Al limite, li ha raffinati. Mai che ci apprezzino per qualcosa di meno effimero, però.
«Visto lo scarso senso dello Stato degli italiani, è difficile farsi piacere allestero per questa qualità».
Già, ma il suo settimanale per illustrare un lungo servizio sugli scandali estivi (titolo: «La grande abbuffata») ha scelto un pallone sgonfio su un piatto di spaghetti condito con bigliettoni di euro. Vi siete ispirati al servizietto che ci fece Der Spiegel negli anni settanta (copertina con P38 e spaghetti)?
«Su quale giornale...? Sul mio? Guardi, gliel'ho detto che sono in ferie. Di quella foto non ne so niente. Si vede che hanno approfittato della mia assenza per pubblicarla. Il servizio, però, non fa altro che documentare quello che sta succedendo in Italia. E l'ha firmato una giornalista sposata a un italiano, più corretto di così».
Il solito Der Spiegel non è andato leggero. «Paese di parassiti» ci ha deliziosamente definiti. Che cosè, accanimento?
«È stata una scelta di cattivissimo gusto. Non avrebbero dovuto pubblicare quell'articolo. Ma la reazione degli italiani è stata spropositata. In fondo era l'opinione di un giornalista, non della Germania intera. Per i tedeschi siamo vittimisti, quindi poco sicuri».
Poteva andare peggio. Ma lei, i vecchi pregiudizi li ha mai sperimentati sulla sua pelle?
«Anni Settanta, liceo classico di Hannover. Un mio compagno di classe mi chiese se a Roma esistevano case vere o se la gente viveva tra le rovine antiche. Ed ero al liceo classico, non in una miniera o in una pizzeria...».
La sua carriera ne ha risentito?
«Se sono direttore di Die Zeit significa che c'è stata una grande apertura. Che cosa si penserebbe in Italia se un tedesco diventasse direttore di Repubblica o del suo giornale?».
E allora a che punto è l'integrazione degli italiani?
«Il problema è che in Germania non sta crescendo una nuova classe di italiani perché le famiglie non curano l'istruzione dei propri figli. Esistono delle scuole, le Sonderschule, fatte apposta per gli studenti più in difficoltà. Ebbene, un quarto degli alunni sono figli degli italiani. Non c'è interesse a far crescere una nuova generazione di immigrati, allo studio preferiscono subito il lavoro. Così la comunità non fa passi in avanti».
Cosa rappresenta per la Germania questo mondiale?
«Un'ondata di fiducia e di buon umore per un Paese che non sta passando un bel periodo. E che può mettere in mostra un sano patriottismo e non pericoloso come in altri tempi».
Italia o un'altra squadra: cè differenza per la Germania?
«Gli azzurri sono il peggiore avversario che poteva capitare ai tedeschi, gli mettiamo paura. Ma lo scandalo che ha investito il nostro calcio è già una vittoria per loro».
Quanto a scheletri, però, nemmeno loro scherzano...
«Quello degli arbitri era infinitamente meno clamoroso. E poi qui hanno la certezza che chi sbaglia paga. Non so se anche in Italia...».
Abbiamo capito.
«Ovviamente per l'Italia. Ma la mia compagna è tedesca, quindi non sarà facile. A Die Zeit? Sanno del mio tifo per gli azzurri, ma pensi che l'unica bandiera che sventola in redazione è quella rossocrociata di un collega pazzo per la Svizzera».
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