Stefania Vitulli
Senza se e senza ma: don Luigi Verzè non si è mai pronunciato, nemmeno per errore, a favore dell'eutanasia. «Conservarlo, senza tormentarlo»: questo, immediatamente prima di partire per il Brasile, chiese di fare ai medici cui era affidato il caro amico e collaboratore che nei primi anni Settanta privo di funzione cardiaco-polmonare rimase attaccato ad un respiratore per quattro lunghissimi mesi di sofferenza. Dal Brasile, alcuni giorni dopo, don Verzè seppe della morte dell'amico.
In una lettera indirizzata al direttore di Avvenire, il presidente della Fondazione San Raffaele di Milano ha finalmente chiarito ieri il mistero della sua dichiarazione esplosiva: «Staccai la spina per lasciar morire un amico». Nella lettera don Verzè precisa che l'amico, un «cristiano solido. Comunione quotidiana», lo aveva chiamato al suo capezzale in un momento di estrema lucidità: «capii... chiesi ai medici di smettere quell'accanimento». Accanimento terapeutico, appunto, non eutanasia, pratica che don Verzè condanna senza mezzi termini, come dimostrano alcuni brani di un suo libro di prossima pubblicazione che Verzè ha anticipato al quotidiano della Cei e che fanno parte di una conferenza svoltasi ieri alla Pontificia Università Urbaniana: «Non è lecito uccidere perché l'eliminazione della vita è il peggiore di tutti i mali com'è vero che la vita è il migliore di tutti i beni... Appare irrazionale l'eutanasia, qualsiasi ne sia la motivazione» e aggiunge «arrendersi alla malattia, al non c'è più niente da fare e quindi uccidere per compassione, è meschina codardia».
Il chiarimento di don Verzè si è reso necessario dopo che nei giorni scorsi da più parti si erano verificati profondi fraintendimenti delle sue dichiarazioni, tanto che il fondatore del San Raffaele si era visto attribuire l'etichetta di sostenitore di metodi abrogativi della vita, che invece non esita a condannare come «tutti brutali compreso il living will registry o testamento biologico, che non so se definire patto scellerato o frigo funerario». I commenti seguiti all'intervista di don Verzè hanno tuttavia alimentato il dibattito già in corso legato ai progetti di legge presentati in Parlamento sulle direttive anticipate di trattamento. Un gran numero di personalità da tempo impegnate a favore dell'eutanasia non avevano esitato ad applaudire le sue parole. Umberto Veronesi aveva parlato di «dichiarazioni di buon senso» e, come medico e come laico lodato don Verzè, esortando gli uomini di fede «a qualsiasi religione appartengano» a fare come lui. Fabio Mussi, ministro della Ricerca si era dichiarato positivamente colpito dall'intervista; il verde Tommaso Pellegrino aveva addirittura ipotizzato che dopo l'intervento di don Verzè il Parlamento non potesse sottrarsi all'approvazione di una legge sull'accanimento terapeutico.
Oggi poi, in occasione della settimana europea contro il dolore, Giustino Varrassi, presidente dell'associazione italiana per lo studio del dolore, ha indirizzato una lettera a don Verzè, sottoscritta da 22mila medici - di cui 1500 suoi soci italiani e il restante numero parte delle Federazioni europee - in cui si mostra polemico nei confronti del sacerdote per la chiusura del centro di terapia del dolore del suo ospedale. Da parte del mondo ecclesiastico e di chi si è sempre mostrato assolutamente contrario a qualsiasi metodo «finale» e ha adottato un atteggiamento razionale nei confronti dei limiti della terapia del dolore erano giunte dichiarazioni scettiche o perplesse sull'intervista di don Verzè: sorpresa da parte di monsignor Ravasi, Prefetto della biblioteca e della pinacoteca Ambrosiana, che non ha esitato a parlare di «perversioni mediatiche»; un atteggiamento profondamente critico espresso da Monsignor Maggiolini e sincero stupore da parte della Consulta di Bioetica pronunciato attraverso il suo rappresentante Maurizio Mori.
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