A 106 anni muore la Pomsel Fu la segretaria di Goebbels

Matteo Sacchi

Hannah Arendt parlava di banalità del male. Nel caso di Brunhilde Pomsel, morta venerdì (l'annuncio è di ieri) a centosei anni, si potrebbe parlare della burocraticità del male. Del male che si trasforma in lavoro d'ufficio, da sbrigare con solerzia e senza vederne la vera natura. La Pomsel era infatti la segretaria di Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich. Per certi versi questa vecchina era l' ultima testimone vivente del cuore della macchina Nazional socialista. Un ruolo che non le pesava e che aveva vissuto con grande normalità. «Per me era un lavoro come un altro, non facevo altro che fargli da segretaria» raccontava Brunhilde nelle interviste. La sua vita si è anche trasformata in un film, A German Life («Una vita tedesca»), pellicola presentata al Munich Film Festival a luglio dello scorso anno.

Nata a Berlino nel 1911, può essere considerata il paradigma di una generazione di esecutori. Primo impiego? Stenografa per un avvocato ebreo. Secondo? Dattilografa per un nazionalista. Anzi, per un periodo gli incarichi si sovrapposero. Poi nel 1933 l'impiego statale all'ufficio trasmissione del Reich e 9 anni dopo la «promozione» al ministero della Propaganda al fianco di Goebbels. «Nessuno - parola di Pomsel nel documentario - come lui riusciva a trasformarsi da una persona civile in un nano delirante». A chi l'ha accusata di non aver voluto vedere quello che accadeva ha sempre replicato: «Oggi c'è chi dice che avrebbe fatto di più per quei poveri ebrei e io ci credo. Ma penso anche che al mio posto non lo avrebbero fatto. In quel periodo l'intero Paese era come rinchiuso in una specie di cupola, come se tutti noi fossimo all'interno di un enorme campo di concentramento».

«Non abbiamo mai saputo nulla dello sterminio, è stato tutto tenuto nascosto» ha sostenuto fino alla fine. E sino alla fine seguì Goebbels nel bunker di Hitler, da cui uscì per finire 5 anni in una prigione russa. Di sé diceva: «Non provo nessun senso di colpa. Se sono colpevole io lo è anche il popolo tedesco».

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