Addio al poliedrico Claude Lanzmann il regista del monumentale «Shoah»

Documentarista, scrittore e filosofo era un intellettuale a tutto tondo

Cinzia Romani

La sua vita è stata un romanzo e ad annunciare la morte di Claude Lanzmann, scrittore, regista, sceneggiatore e giornalista classe 1925, la cui fama proviene dal film monumentale Shoah, è stata la Casa editrice Gallimard, che ha pubblicato la sua autobiografia. Per i lettori di Simone de Beauvoir si è trattato dell'unico uomo col quale la scrittrice, libera e indominabile, abbia coabitato, tra il 1952 e il 1959 (lui 27, lei 44 anni): con il compagno della sua vita, Jean-Paul Sartre, infatti, l'autrice de Il secondo sesso non divideva il tetto.

Eppure l'idea della fine pareva assurda a quest'irriducibile difensore d'Israele. «La morte può arrivare in ogni momento. La statistica è contro di me. Morire non ha niente di grandioso: al contrario, è la fine della possibilità d'essere grandiosi», diceva, contraddicendo Heidegger. Sarebbe ingiusto legare la sua memoria solamente a Shoah, «la sepoltura che mancava al popolo ebreo», stando all'amico Didier Sicard. Lanzmann conosceva il dolore: il figlio Félix se lo portò via un cancro a soli 23 anni, il 13 gennaio 2017.

Era nato il 27 novembre 1925 a Bois-Colombes, figlio di genitori ebrei arrivati in Francia dall'Europa dell'est. La madre Paulette vi giunse dopo il terribile pogrom di Kichinev, in Bessarabia, (oggi Chisinau). Il nonno materno Yankel Grobermann, che allevava cavalli, spinse la famiglia a partire. Come racconta lui stesso in Shoah (Bompiani), con prefazione di Simone de Beauvoir, la madre fu donna coraggiosa e impulsiva: negli anni Trenta lasciò il marito, per mettersi con il poeta Monny de Boully.

Da studente, durante la Seconda Guerra mondiale, Lanzmann si unì alla Resistenza francese e dopo la guerra studiò filosofia a Parigi, insieme all'amico e scrittore Michel Tournier. Lettore, a Berlino Ovest (la città era divisa in quattro settori) presso la Freie Universitaet, tenne seminari sull'antisemitismo, pubblicati da Le Monde. Per una ventina d'anni, esercitò il giornalismo, scrivendo per France Soir, Paris Match, Elle. All'inizio dei Cinquanta, tornò a Parigi, dove prese a frequentare il gruppo degli esistenzialisti, per poi dirigere la rivista Les Temps Modernes, che continuò a editare anche dopo la morte de il Castoro, nel 1986. Sottoscrisse il Manifesto dei 121, contro la repressione in Algeria (1954-1962) e nel 1967 curò un'edizione speciale di Tempi moderni, con contributi di autori arabi e israeliani. Sotto la pressione di un antisemitismo crescente, a sinistra, nel 1968 prese a occuparsi intensivamente di Olocausto. Co-sceneggiatore del film drammatico Elise ou la vraie vie (1970), Lanzmann si dette al documentario. Ma ottenne fama mondiale col suo secondo film Shoah (1985), documento di quasi dieci ore, il cui titolo si riferisce all'annientamento del popolo ebraico: sei milioni di ebrei sterminati, nel mondo, dai nazisti. Shoah gli è costato 12 anni di lavoro e 350 ore di interviste con i sopravvissuti.

Alla prima parigina del film, andò anche l'allora Presidente François Mitterrand. La giuria della Berlinale, che nel 2013 assegnò a Lanzmann l'Orso d'Oro onorario, definì Shoah «un capolavoro epocale della cultura della memoria». Tuttavia l'autore sosteneva che nessuna rappresentazione filmica, come Schindler's List (1993) di Spielberg, poteva rendere l'orrore dell'Olocausto. Al Festival di Venezia del 1994, il regista portò Tsahal, terza parte della sua trilogia ebraica: i critici, comunque, lo ritennero un'ode acritica ai militari israeliani. L'ultimo documentario, L'ultimo degli ingiusti (2013), venne dedicato al rabbino austriaco Benjamin Murmelstein, costretto a collaborare con Adolf Eichmann a Theresienstadt.

Ai tempi delle elezioni francesi, Lanzmann disse che avrebbe votato Macron: la sua storia d'amore con Brigitte gli ricordava la propria con Simone,che, nel 1952, aveva invitato al cinema,«a vedere un film qualunque». Tanto per conoscerla.

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