Cultura e Spettacoli

Anna, la serie per chi non è ancora saturo della pandemia

Ambientazione post-apocalittica, regia ricercata e cast di soli bambini per una serie dal ritmo rallentato, in cui gemme di crudeltà e piccoli istrionismi visivi ravvivano lande desolate

“Anna” di Ammaniti, la serie per chi non è ancora saturo dell’argomento pandemia

Anna di Niccolò Ammaniti è il primo vero esempio di serialità d’autore italiana. Nel bene e nel male.

Espansione, più che adattamento, del romanzo omonimo, è il prodotto di una sinergia tra il talento visionario di Ammaniti e la potenza produttiva di Sky.

Nel tradurre in prima persona il proprio libro in immagini, il celebre scrittore scomoda stili cinematografici diversi ma già molto peculiari, come quelli di Garrone e Sorrentino, ibridandoli e dando luogo a qualcosa di inedito, da un lato baroccheggiante di riferimenti, anche simbolici, in maniera grottesca, dall’altro immobile in una ambientazione al contempo futuristica, selvaggia e desertica che richiama quella di “Mad Max”.

“Anna” è un continuum di ricercatezza declinata in forme diverse, dalle note d’apertura di Cristina Donà, il cui brano “Settembre” è usato come sigla, fino ai tocchi di surrealismo archetipico di cui è disseminata la narrazione visiva.

Veniamo alla trama. Il mondo è stato devastato da una malattia chiamata “La Rossa”, che ha ucciso tutti gli adulti. Soli al mondo restano i bambini, immuni fino all’età dello sviluppo, quando anche loro saranno destinati a contagiarsi. Macchie rosse su tutto il corpo e difficoltà respiratorie caratterizzano il virus che ha lasciato orfana anche Anna (Giulia Dragotti) che, come promesso alla mamma prima che morisse, vive per proteggere il fratellino, Astor (Alessandro Pecorella). Quando quest’ultimo viene rapito, per la piccola inizia un’odissea nella comunità dei Blu, bambini che vivono sotto la dittatura di una “regina pazza”, Angelica (Clara Tramontano), e all'ombra di un oracolo misterioso, la Picciridduna (Roberta Mattei), un adulto inspiegabilmente sopravvissuto alla malattia e che si dice possa guarire gli infetti.

Continui salti narrativi ci mostrano il mondo prima e dopo la pandemia, mentre la colonna sonora mischia rock psichedelico a brani iconici della tradizione italiana. Irriconoscibile la Sicilia che fa da sfondo alla vicenda, terra sempre affascinante ma completamente diversa da quella cui siamo abituati a pensare.

Ogni episodio si apre con la precisazione che il romanzo è uscito nel 2015 e la serie è stata girata sei mesi prima dell'arrivo del Coronavirus, a sottolineare quanto ogni riferimento all’attuale situazione in cui è immerso lo spettatore sia puramente casuale. Va bene, ma bisogna ammettere che il pubblico si dividerà tra chi sarà incuriosito proprio dalle similitudini tra fantasia e realtà e chi, per lo stesso motivo, non si accosterà alla visione ritenendola, non del tutto a torto, il colpo di grazia per chi già sia stremato nel quotidiano dall’argomento “conseguenze di una pandemia”.

Tra l’altro difficile giovi all’umore osservare un mondo in cui i bambini cedono quasi tutti ad istinti crudeli. Si dirà che tra loro i protagonisti siano però proprio i rappresentanti della speranza e del sentimento parentale, ma restano appunto una minoranza eletta, essendo i minori ritratti o in pieno delirio di onnipotenza o asserviti al malvagio di turno o preda di una depressione precoce. Il binomio tra cattiveria autentica e infanzia trova il suo esempio perfetto nel gruppo di amichette che, travestite da principesse Disney, si dedica per diletto al male gratuito. Indubbio che sfilino alcune sequenze che si dimenticano difficilmente, come quella di un abbraccio usato a rituale per ingentilire il trapasso per soffocamento di una serie di persone, ma si tratta sempre di trovate tanto significative quanto cupe.

Il degrado in questo mondo post-pandemico è prima di tutto morale, anche se talvolta sottilmente illuminato da squarci di ironia. La mancanza di regole e di figure adulte di riferimento dà luogo all’emergere di un sadismo che brucia ogni tappa anagrafica, come se fosse connaturato all’essere umano e aspettasse solo il terreno incolto, ossia l’anima priva di educazione etica, per infestarlo.

I bambini superstiti appaiono selvaggi: che vivano da soli in centri commerciali abbandonati, si avventurino in una natura misteriosa o si organizzino in comunità tribali, il loro sviluppo psicologico è desolante. Hanno perso, prima del tempo, un’innocenza che riemerge solo a tratti nella meraviglia o nel gioco. Non tutti, del resto, possono attingere ad un lascito d’amore come quel “quaderno delle cose importanti” che la madre ha preparato con cura per Anna e Astor, affinché li accompagni, in assenza di lei, nel difficile cammino di crescita e sopravvivenza.

“Anna” è una produzione a suo modo monumentale quanto a risorse impiegate, ma è un bene non debba passare sotto le forche caudine dell'auditel (gli episodi escono tutti assieme oggi on demand su Sky). La verità, infatti, è che sarà apprezzata da pochi, ossia i cultori irriducibili del ritmo dilatato, dell’inquadratura artistica e della stravaganza un po' autocompiaciuta.

I più si asterranno perché il periodo è già abbastanza fosco per cercarne sullo schermo una variazione sul tema.

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