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Anton Dante Coda il liberale che cercò di fermare la partitocrazia

Anton Dante Coda il liberale che cercò di fermare la partitocrazia

Il secondo dopoguerra vede in Italia la concomitanza di due fenomeni fra loro intrecciati: il repentino dissolversi dell'unità antifascista e il sostanziale declino della classe dirigente di estrazione liberale, formatasi nel primo ventennio del secolo e che aveva subito, con varie traversie, l'oppressione del regime fascista.

Un esempio specifico, ma significativo, di questa duplice combinazione è rappresentato dalla vicenda di Anton Dante Coda. Coda, già attivo nelle file del liberalismo giolittiano, molto vicino a Einaudi e a Croce, fu membro autorevole del Clnai, presieduto da Alfredo Pizzoni, assieme ad altri liberali come Giustino Arpesani, Luigi Casagrande, Francesco Manzitti, Cesare Merzagora e Filippo Jacini. Su questa figura, del tutto trascurata dalla storiografia, ci informa ora Gerardo Nicolosi, che porta alla luce con grande acribia un suo importante diario, relativo agli anni 1946-1952: Anton Dante Coda, Un malin-onico leggero pessimismo. Diario di politica e di banca (1946-1952), Olschki (pagg. 377).

Nel 1944 Coda fu accusato da esponenti socialisti del Cln piemontese di un fatto di sangue avvenuto durante la campagna elettorale del 1921 nei pressi di Biella. Da questa accusa non fu adeguatamente difeso nemmeno dagli amici liberali. Venne poi assolto e ritenuto del tutto estraneo ai fatti, ma la sua vicenda è indicativa della fine di quella concordia discors che aveva caratterizzato i rapporti tra i partiti dell'antifascismo. Nominato presidente dell'Istituto bancario San Paolo di Torino, in quella fase diretto da Carlo Pajetta, commissario nominato dal Cln e padre di Giuliano e di Gian Carlo, Coda mutò l'indirizzo della banca nei confronti dell'amministrazione comunale frontista di Torino. Respinse le continue richieste di finanziamenti agevolati che, se si giustificavano per la difficile situazione del dopoguerra, sarebbero stati poi difficili da controllare, con il rischio che andassero a foraggiare la politica. Egli mantenne una linea einaudiana, convinto che le banche dovessero «dare soltanto a chi può restituire».

Il diario offre dunque spunti di riflessione sui rapporti tra banche e mondo imprenditoriale negli anni della ricostruzione, con particolare riguardo al ruolo dei partiti politici.

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