Basta con i proclami anni '70. I "nemici"? Ci si può parlare

Non dobbiamo più giudicare in base all'appartenenza ideologica. Chi non la pensa come noi, ci aiuta a pensare

Basta con i proclami anni '70. I "nemici"? Ci si può parlare

Ho 63 anni e quindi una memoria (anche politica) di lungo corso. Appartengo, sia da parte di padre che di madre, a famiglia antifasciste e ho cominciato a collaborare a questo giornale con Indro Montanelli, indubbiamente un antifascista. Poi il giornale cambiò pelle ma, sia prima che dopo questo cambio, è stato per me il luogo d'incontro con tanti bravi giornalisti e cari amici, che non mi hanno mai chiesto di essere «in linea» con le posizioni ufficiali. Sono stato censurato (si fa per dire) solo una volta, perché scrissi un articolo elogiativo di Pasolini, che a Montanelli è sempre stato cordialmente sulle scatole.

Chi mi conosce sa i miei tanti difetti ma sa anche che in me non c'è una sola briciola di fascismo. Ciò nonostante mi sono sentito dare diverse volte del fascista, sempre per ragioni che col fascismo non avevano nulla a che fare: perché appartenevo a un certo movimento cattolico, perché non mi era piaciuto un certo libro, perché non ero comunista... Erano altri tempi, mi sono detto tante volte. Ma nei giorni scorsi ho potuto vedere che questa idea - del tempo che macina tutto, tutto rappacifica, tutto confonde - non era del tutto esatta. A proposito della polemica sul Salone del libro di Torino mi è capitato di leggere parole e prese di posizione che sembrano tratti dalla naftalina dal baule degli anni '70. Anni in cui spesso un uomo veniva giudicato non in base a quello che faceva, diceva o pensava ma solo in base alla sua appartenenza ideologica, reale o presunta che fosse (perché proprio la presunzione, qui, gioca un ruolo determinante). Tutto questo mi ha comunque aiutato a crescere, e a farmi un'idea della prassi democratica. La Costituzione è lettera morta se la prassi democratica non entra in noi, perché la politica la fanno gli individui, il personale è politico. Poi viene la Costituzione, ma solo poi.

Questa prassi ce la insegna la letteratura stessa. I libri, che il Salone di Torino celebra, giustamente. Tante volte mi è capitato di desiderare conoscere l'autore di un libro con il quale non ero d'accordo, e di non desiderare affatto di conoscere qualcuno con cui, viceversa, mi trovavo perfettamente in linea. La ragione è che un libro è importante non perché il suo autore la pensa come me, ma perché mi aiuta a pensare. Un conto è «pensare», un conto è «pensarla».

Mi pare che la vicenda del Salone sia una specie di festival del «pensarla». Mi viene in mente un compagno di liceo che, diventato comunista, mi disse: da adesso con te non parlo più, perché io coi fascisti (cioè il sottoscritto) non ci parlo.

Se, viceversa, vogliamo pensare, e non soltanto pensarla, allora dobbiamo andare in casa dei nostri presunti nemici e parlare con loro. Leggere quello che scrivono, studiare, argomentare. Sfidarli sul piano dell'intelligenza e della comprensione della realtà, ma anche ascoltarli. Tutto questo non voler parlare e ascoltare mi suona sospetto. Ci trovo la difesa di una rendita di posizione da un lato e, dall'altro, l'incapacità culturale di gestire un rancore politico, un risentimento che ha la sua radice anche nei nostri errori, negli errori di una democrazia mal gestita, mal compresa a furia di credere di averla già compresa.

C'è, poi, un altro errore culturale: quello di credere che la cultura come tale sia antifascista. L'ho letto da qualche parte. Chi lo dice non sa bene quello che sta dicendo, perché se lo sapesse dovrebbe fare quantomeno i conti col fatto che la cultura fascista esiste, o comunque è esistita, e che basterebbe studiare quello che è stato prodotto - letteratura, poesia, teatro, architetture, arti visive - tra le due guerre mondiali in Italia per rendersene conto. È vero che chi operò a quel tempo fu costretto in qualche modo ad essere fascista, e che la loro opera, studiata a fondo, rivela radici che nulla hanno a che vedere col fascismo. Ma questo vale per tutte le ideologie che pretendono di predeterminare il corso delle idee, comunismo in primis. Fa parte del rapporto tra cultura e potere, e Michel Foucault ci ha insegnato che il potere non coincide con le cariche politiche, ed è qualcosa che si esercita ovunque, perché ovunque (famiglie, ufficio, scuola) si stabiliscono delle differenze tra gli individui. Il potere penetra i corpi.

Se vogliamo davvero combattere l'editoria presunta fascista bisognerebbe che le opere degli autori fascisti fossero pubblicate dai grandi editori, Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, come contributo alla conoscenza della storia di questo Paese. Il fascismo non è stato una «parentesi».

È vero che, oggi, alcuni politici senza essere fascisti favoriscono con le loro parole pratiche fasciste. Favoriscono innanzitutto la non-conoscenza. Ma questa è una ragione in più per agire diversamente. Massimiliano Kolbe, Dietrich Bonhoeffer e Etty Hillesum hanno fatto contro il totalitarismo assai più della bomba di Hiroshima.

Solo dopo averci provato possiamo decidere di innalzare muri.

Anche a CasaPound, come dappertutto, ci sono persone con cui si ragiona e persone con cui non si ragiona. Cerchiamo le prime. Possiamo essere di sinistra o di destra (io non credo a nessuna delle due): il problema, molto più basico, è se crediamo ancora nell'uomo oppure no.

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