Sì ma per favore dategli un tempo massimo. Le boy band sono come i freeware che si scaricano da filehippo.com: funzionano benissimo per un po’ ma poi basta. Ora è il momento dei One Direction, una boy band che più costruita a tavolino non si può: sono cinque ragazzini, nati un po’ in Inghilterra e un po’ in Irlanda, che si sono presentati ciascuno per i fatti propri alle audizioni di X Factor. Da soli erano volatili, ininfluenti, niente di che. Ma una delle «giudici», ossia Nicole Scherzinger delle Pussycat Dolls, si è accorta che, messi insieme, avrebbero potuto diventare «the next big thing», ossia la nuova voce importante del fatturato di una casa discografica. Nel caso di X Factor, la Sony. E così è stato: ora una generazione di ragazzini li segue scatenati e, per avere giusto un’idea, dovreste seguire le community sul web. In pratica autentiche falangi macedoni impegnate a spargere il verbo. Risultato: il disco dei One Direction, Up all night, è stato in cima alla classifica italiana, ora è in testa su iTunes sia negli Stati Uniti che in Canada e tra poco questi cinque ragazzetti parteciperanno ai Kids Choice Awards di Los Angeles e poi saranno ospiti a New York del Saturday Night Live, praticamente una consacrazione per una intera generazione di umani, in particolare quella nata tra il 1992 e il 2000, che li promuove su internet con entusiasmo contagioso. Per carità: ce ne fossero, sempre meglio fare il tazebao digitale di un gruppo pop piuttosto che scatenarsi su altri obiettivi tipici degli adolescenti, di solito meno artistici. Ma, vista da fuori, l’odissea di ciascuna boy band è una regola con poche eccezioni. Quando ci sono, le eccezioni ovvio, alleluja: e Robbie Williams dai Take That o Justin Timberlake dagli ’N Sync lo confermano. Ma generalmente la boy band media ha la scadenza come gli yogurt. O, forse è meglio essere più precisi, come le svolte generazionali. Sono prodotti preconfezionati, magari pure con entusiasmo, ma legati a una fascia di ascoltatori che inevitabilmente cambia gusti musicali. Le boy band non crescono con i loro fan. Semplicemente, ne soddisfano i primordiali bisogni pop.
Poi addio.
E semmai, qualora si riformassero dopo lo scioglimento come hanno fatto i Take That o i Backstreet Boys o i Blue, sfruttano la carta nostalgia. Peraltro con risultati alterni. Bene i Take That, anzi benissimo. Drammatici i Blue, che, dopo una «pausa di riflessione» lunga sette anni, si sono ripresentati all’Eurovision Song Contest nel 2011 nell’indifferenza più o meno generale. Almeno i 5ive, creati dallo stesso management che aveva formato le Spice Girls, sono rimasti in piedi per quattro anni, hanno venduto i loro onorevoli venti milioni di dischi e poi tanti saluti a tutti: ora ciascuno di loro fa la propria vita. Idem per i Backstreet Boys, anche loro una «million dollar band» (120 per l’esattezza): idolatrati dal 1993 al 2001, si sono riformati nel 2005 e ora sono una macchina da soldi già appesa all’effetto vintage. Howie Dorough ha garantito che il loro nuovo album uscirà entro il prossimo anno, ma sarà solo un pretesto per andare in tour per il piacere di tifose una volta adolescenti e ora mamme o almeno mogli. Gruppi a tempo. Musica di passaggio. In fondo, la differenza la fanno il talento e la volontà di ciascuno, oltre che il cosiddetto Fattore C: altrimenti tutti a casa e comunque è stato bello. In qualche caso, no. Stephen Gately dei Boyzone è morto a 33 anni nel 2009 dopo (dicono le cronache) «otto ore di bagordi». Per commemorarlo, gli altri membri della band, tra i quali Ronan Keating, hanno iniziato un «Brother Tour» che è stata più la commemorazione di un amico che uno show musicale. Ma almeno hanno salutato i fan. I Tokio Hotel invece sono spariti nel nulla. Autentiche star tra il 2007 e il 2010, tra l’altro con godibili accenti rock. Poi, evaporati (con annessi problemi di droghe e di voce).
Forse.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.