L'ultima nata è quella del Cholo (Simeone). Contrapposta all'altra, consolidata da anni di spettacolari successi, del Pep (Guardiola). La tribù del Cholo si regge sul dogma dell'impeto fisico e della concentrazione, mentre quella del Pep basa tutto sulla pazienza e sul rigore tecnico. Cholo, il soprannome dell'allenatore argentino dell'Atlético Madrid, deriva dall'azteco xoloitzcuintli, cioè «incrocio di razze». E siccome nel calcio tout se tient, sapete quale fu la prima partita di calcio di cui si conosca il risultato? Tenochtitlán contro Texcoco, finita 2 a 3, nonostante la discesa in campo, per sedare una rissa, di Montezuma, presidente onorario dei padroni di casa in quanto imperatore azteco. Eravamo all'inizio del XVI secolo, e si giocava sette contro sette. Ma la palla era già di gomma, gli spalti erano già «gremiti ai limiti della capienza», come avrebbe detto Nicolò Carosio, e gli attaccanti avevano già, come direbbe Pizzul, «il problema di girarsi», oltre a quello di salvare la testa. Alcuni bassorilievi dell'epoca, infatti, raffigurano il capitano dei vincitori che tiene in mano il capo mozzato del capitano dei vinti... Non meno truculento era il calcio che si giocava circa duecento anni prima in Inghilterra, per non parlare del soule originario di Piccardia e Normandia e risalente a prima del Mille, quando uno come il Cholo, o come Ringhio Gattuso, sarebbe stato considerato una mammoletta.
Ebbene sì, nonostante il guardiolismo, che non a caso è un unicum sui campi verdi, il calcio era, è e resterà una roba bestiale, l'anello di congiunzione ludico fra l'uomo e la scimmia. A proposito di scimmie, in La scimmia nuda (1967) lo zoologo ed etologo Desmond Morris scrive che sia i bambini piccoli sia gli scimpanzé sono massimamente attratti dalle palle che rimbalzano. Proprio non sappiamo resistere, è più forte di noi. Da sempre, come spiega lo stesso Morris nell'edizione, riveduta e aggiornata, diciamo un 4-3-3 variabile, di La tribù del calcio (Rizzoli, pagg. 335, euro 29,90). Il libro uscì la prima volta nell'81, e da allora molti gol sono passati sotto i ponti dalla Lapponia alla Terra del Fuoco e da Vladivostok al Giappone facendo il giro lungo, tutto è mutato ma nulla è cambiato, nella nostra tribù di calciofili, che sopravvive proprio grazie al fatto di essere una confederazione, litigiosa, settaria e indisciplinata finché si vuole, ma comunque saldissima, di tribù.
Il calciatore, spiega Morris, è una variante del cacciatore. Entra cioè in scena quando la raccolta di bacche e frutti non bastava più a soddisfare il nostro gusto e la nostra voglia di osare. Cacciare significò correre, allenarsi, stare a lungo in posizione eretta, studiare il campo in cui si aggirava la preda, viva e bizzosa come un pallone. Poi, certo, tornammo proto-borghesi e pantofolai, ci demmo all'agricoltura, ma l'istinto era quello, non lo si poteva inibire. Così la caccia, da lavoro divenne svago in cui canalizzare l'aggressività. Un bel giorno, qualcuno diede un calcio a un sasso, poi ne diede un altro, poi un altro ancora, per passarlo a un compagno di grotta, gettando le basi del gioco più bello del mondo. Morris, a 88 anni, è ancora un bell'esemplare di scienziato di scuola anglosassone, schietto, sportivo, lineare. Quando serve, entra in tackle sulla materia, fornendone le coordinate storiche (dai pionieri prima aristocratici e poi proletari dell'Inghilterra ottocentesca alle odierne simulazioni dei cerca-rigori) e raccontandone vizi e virtù, ma sa anche costruire trame interessanti affidandosi alla statistica e al costume.
Il modo migliore per leggere La tribù del calcio è considerarlo con l'occhio dell'osservatore neutrale, anzi dell'agnostico. Di quello che cambia canale quando in tv c'è la finale di Champions League. Di quello, insomma, che considera noi, schiavi del monolite sferico, autentiche bestie. Capirà, il poverino, che la palla la passiamo più volentieri all'amico, come conferma un recente studio ungherese, che la partita sviluppa lo spirito gregario anche nei top-player, che l'esultanza dopo una rete si esprime con linguaggi sorretti da codici ereditati, che il calcio è filosofia, politica, arte. Bill Shankly, gran capitano della Scozia e poi mister per quindici anni del Liverpool, una volta disse: «Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non mi piace questo atteggiamento.
Posso garantirgli che è una faccenda molto più seria». Desmond Morris nel '54 conseguì il dottorato presso l'Università di Oxford. Ma soltanto nel '78 divenne direttore sportivo dell'Oxford United. La palla, qualche volta, si ferma ad aspettare l'arrivo di un campione.
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