Dal Campiello la cinquina e una provocazione: il romanzo italiano fa pena

Passano Janeczek, Cavazzoni, Orecchio, Targhetta e Postorino. Ma è il filologo Tomasin a far parlare...

Dal Campiello la cinquina e una provocazione: il romanzo italiano fa pena

Cinque editori differenti per la selezione dei finalisti della Giuria dei Letterati ieri a Padova alla 56esima edizione del Premio Campiello: al primo turno con 9 voti è passata Helena Janeczek e il suo La ragazza con la Leica (Guanda), con 6 voti Ermanno Cavazzoni e La galassia dei dementi (La nave di Teseo) e sempre con 6 voti Davide Orecchio con Mio padre la rivoluzione (Minimum Fax). Si è dovuti arrivare al terzo turno di voti e a un accordo tra giurati per portare in cinquina Le vite potenziali di Francesco Targhetta (Mondadori) e ricorrere al ballottaggio tra i romanzi di Giorgio Falco, Gian Mario Villalta e Rosella Postorino per avere l'accordo su quest'ultima e il suo Le assaggiatrici (Feltrinelli). Tra le esplorazioni narrative ricorrenti nei romanzi finalisti e negli altri, il passato recente, tra Seconda guerra mondiale e anni di piombo, la distopia, il digitale, la ricerca delle radici cristiane. Il premio Opera Prima è andato a Valerio Valentini con Gli 80 di Campo-Rammaglia (Laterza), ibrido tra romanzo, reportage e saggio in cui, dopo il terremoto del 2009, un immaginario paese dell'aquilano si ritrova sospeso tra formazione individuale e esposizione sociale e si fa alla fine comunità salda e motivata.

Anche se una bella fetta di editoria è soddisfatta dei risultati, la mattinata ha avuto momenti di riflessione accesa. Il primo è stato offerto dal presidente di giuria di turno 2018, Carlo Nordio con un'eccitata difesa degli imprenditori veneti, che, secondo il magistrato, all'accusa di essere «Rapaci, ubriaconi e attenti solo agli sghei, come ha detto qualche sciagurato» rispondono patrocinando la cultura. Il secondo è venuto dalla prolusione del giurato Lorenzo Tomasin (new entry 2017), docente di filologia romanza all'Università di Losanna, incaricato di redigere una panoramica dell'offerta narrativa del 2017 legata agli oltre 250 libri dai cui i giurati hanno estratto i 46 da portare verso la cinquina (tra gli esclusi illustri Roberto Alajmo, Eraldo Affinati, Pupi Avati, Gianrico Carofiglio, Laura Pariani, Simona Vinci).

Secondo Tomasin - che ha analizzato i libri «come se fossi uno straniero» - la letteratura italiana sta malissimo. I colpevoli, molteplici, sono tutti additabili, cosa che il professore non ha mancato di fare: «L'accesso indiscriminato alla pubblicazione rende ancora più alto l'obbligo alla scelta, che diventa scoraggiante, tuttavia, perché mancano criteri assoluti», ha tuonato. Gli editori non sanno più agire da filtro, la produzione è compulsiva e la critica professionale si è arresa a un mero «esercizio catalografico». Gli scrittori italiani, tuttavia, sono sembrati i principali accusati: «Grande assente è lo stile: lo dico nel modo più fastidioso. Se prelevo qualsiasi segmento testuale da quasi qualsiasi romanzo e lo inserisco in un altro, si dà quasi sempre lo stesso risultato: indistinguibile».

La maggior parte dei romanzi che «il più autorevole premio letterario al mondo», come è stato definito durante la mattinata, ha dovuto esaminare sono, secondo il giurato Tomasin: «Scritte in un italiano che non chiamerei letterario, ma editoriale, a cui pare rassegnata la maggioranza degli autori». Una lingua «inodore, insapore e incolore», «da scuola di scrittura»: «Spiccano eccezioni» ha concluso Tomasin. «Chi non scrive romanzi e non si adatta al lettore medio; chi si ribella all'autofiction interpretata come corrispettivo letterario del selfie; chi tenta contaminazioni con altri tipi di arte». Insomma, chi sfugge alla «camera oscura dell'autorappresentazione» rimane il migliore.

Vedremo se la giuria popolare darà ragione a quella «colta»: lo scorso anno infatti Donatella di Pietrantonio entrò in cinquina per un soffio e dopo alcuni turni di voti. Ma poi, alla serata finale alla Fenice, coi voti dei trecento «lettori» stravinse.

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