Carrà, il modo più bello di dare un calcio al calcio

In un libro d'arte, duecento illustrazioni mostrano l'ossessione per lo sport più popolare. E invasivo

Carrà, il modo più bello di dare un calcio al calcio

Il calcio ha il suo Doré, si chiama Marcello Carrà e ha disegnato com'è giusto un inferno, duecento tavole inserite nel più fantastico libro del 2021: La sindrome del pallone. Origine, natura e cura della mania del calcio (La nave di Teseo). Un libro d'arte, chiaro, per il quale è lecito cercare qualche remoto precedente ma che nel panorama attuale svetta solitario. Lo stesso nome di Doré è soltanto una suggestione: l'incisore francese era al servizio di un testo altrui mentre il disegnatore ferrarese (nato a Bondeno nel 1976, vive a pochi metri dalle mura estensi) è illustratore di sé stesso nel senso che sono a sua firma sia le figure sia le parole. E non si tratta di semplici didascalie.

Nell'introduzione, sotto due tifosi festanti dal cranio a forma di pallone, descrive «menti narcotizzate dal nulla dominante, inasprite dalle polemiche sterili, anestetizzate dai poteri forti e assoggettate alle catene burocratiche e fiscali...». Sono i malati di calcio, coloro che negli stadi trovano sfogo ai propri malesseri, alle proprie frustrazioni. L'attacco allo sport più amato dagli italiani è quello di un moralista, sebbene temperato dall'umorismo e trasfigurato dal surrealismo, insomma dall'arte come la intendeva Karl Kraus: «Arte è ciò che diventa mondo, non ciò che è mondo». Il calcio di Marcello Carrà nel mondo reale non esiste, esiste nella sua mente, nel suo studio e adesso in libreria, nelle 143 pagine di grande formato di un capolavoro artistico-editoriale che caldamente consiglio a bibliofili e artofili, cinquanta euri e ti porti a casa un pezzo da collezione, ditemi se non è un affare. Centoquarantatré pagine e duecento visioni, un'impresa psichedelica ma non credo realizzata sotto gli effetti dell'Lsc, l'acido lisergico caro a Michaux e Basquiat.

Conosco Carrà personalmente, è un ingegnere edile e come il collega Carlo Emilio Gadda riserva la sua accesa fantasia all'arte, per il resto è normale. Del resto un'opera così vasta e meticolosa, duecento disegni e un testo scritto a mano, in stampatello, per l'equivalente di circa quaranta pagine, oltre sei mesi di lavoro fitto, non poteva essere portata a termine da un debosciato intossicato. Se l'autore ha una dipendenza è dalla musica classica. «Prediligo Wagner, Mahler, Debussy, un pezzo che mi ispira molto in termini creativi è l'Ottava sinfonia di Shostakovich» mi racconta mostrando il proprio lato melanconico, purgatoriale. Ispiratori figurativi sono senz'altro Bosch e Bruegel e inoltre, venendo ai nostri giorni, Luigi Serafini. Il leggendario Codex seraphinianus ha qualcosa in più della Sindrome del pallone: una lingua inventata. E qualcosa in meno: un testo dal senso compiuto. Pubblicando Carrà, Elisabetta Sgarbi (la domina della Nave di Teseo) si mette alla sequela di Franco Maria Ricci che nel 1981 pubblicò, col coraggio e l'indipendenza di giudizio che lo contraddistinguevano, il razionalmente impubblicabile Codex. La fortuna aiuta gli audaci: oggi il libro di Serafini è un oggetto di culto, domani lo sarà anche La sindrome del pallone.

Fra duecento, il mio disegno preferito? Quello di pagina 29, «sorta di metamorfosi circolare tra forme sessuali e forme pallonistiche», una tavola in cui Carrà diventa perfino artista erotico e speriamo non se ne accorga Zuckerberg, gran censore dell'arte contemporanea e pure antica. Fra tante righe di testo, quella che ho sottolineato con maggior forza? Si trova a pagina 56: «Il monolito nero trasmette volentieri ed assiduamente una partita di calcio». Si riferisce ovviamente al televisore. Una buona parte dell'antipatia per il pallone espressa nel libro deriva da quanto diuturnamente fuoriesce dal maligno elettrodomestico: «Se un telegiornale dedicasse ad ogni edizione cinque o dieci minuti all'uncinetto credo che prima o poi qualcuno, preso da un qualche risentimento, scriverebbe qualcosa contro l'uncinetto», mi risponde quando gli chiedo ragione della scelta del tema, o bersaglio. Mi svela di non essere del tutto antisportivo: mai stato appassionato di calcio e però da piccolo, al tempo di Prost e di Piquet, seguiva la Formula Uno mentre oggi guarda il tennis e il motocross (il motocross?). A disgustarlo davvero sono soltanto gli eccessi del tifo e la violenza verbale e a volte bestiale che ne consegue.

Infine ho capito che tanto scatenato estro scaturisce da un desiderio di moderazione.

Può sembrare contraddittorio a chi non sa che le vie dell'arte sono infinite e spesso contorte: una delle arti più esagerate del Novecento è stata prodotta da colui che personalmente era un superconservatore, e sto parlando di Salvador Dalí, altro maestro aleggiante su queste pagine pazzesche.

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