Immersi in un alone di leggenda che li avvolge da sabato sera quando sono giunti a Milano, provenienti dal Festival di Berlino dove Monuments Men è stato presentato, il supercast composto da George Clooney, Matt Damon, Jean DuJardin, Bill Murray e John Goodman ha proseguito ieri il suo tour per accompagnare l'uscita del film che si annuncia un discreto successo al botteghino dopo la tiepida accoglienza della critica. Ma qui non sembra di essere di fronte al solito dualismo pubblico-cinefili, quanto piuttosto a un'occasione non sfruttata in pieno dallo stesso Clooney, che oltre a essere interprete e produttore è anche regista della pellicola.
La faccenda è quanto più rimarchevole se si considerano le sue ultime prove dietro la cinepresa, entrambi riuscitissime, - Good Night, and Good Luck e Le Idi di Marzo - e scritte con lo sceneggiatore di fiducia e amico Grant Heslow, «che conosco da trentun anni». Proprio Heslow è stato lo scopritore della storia dei Monuments Men, quando alcuni anni fa acquistò in un aeroporto il libro scritto nel 2009 da Robert Edsel, ieri presente alla conferenza stampa di lancio all'Hotel Principe di Savoia, insieme con Harry Ettlinger, l'unico testimone ancora in vita dei Monuments Men. Convocati all'americana, con chiamata singola come nelle discese in campo delle squadre di Nba, i componenti di questo supercast sono una vera famiglia e riempiono lo schermo con carisma e impatto fisico. Ecco perché, forse, ci si aspettava qualcosa di più. «Ho dedicato un paio di sere alla lettura del libro e mi sono convinto che potesse essere giusto per un film», ha rivelato Clooney. «È vero, a Hollywood abbiamo la passione per la seconda guerra mondiale. Sono settant'anni che facciamo film su questo. Ma questa storia era praticamente sconosciuta». Riguarda una squadra composta da non militari, direttori di musei, studiosi e appassionati d'arte voluta dal presidente Roosvelt durante la guerra per impedire il trafugamento e la distruzione di opere d'arte decisa da Hitler quando varò il cosiddetto «Ordine di Nerone».
Nessuno degli attori ne aveva mai sentito parlare prima, ma tutti si sono detti felici di averla potuta interpretare. In particolare Matt Damon, qui nei panni del vero James Granger, il curatore del Metropolitan Museum of Art che decise di mettere a repentaglio la vita per recuperare i capolavori dell'arte. «Il film s'interroga su quale valore abbia l'arte per gli uomini», ha raccontato l'attore. «Per quegli uomini era così importante che valeva addirittura la pena dare la vita per essa». Un sacrificio giustificato secondo Damon: «Questa mattina - ha svelato - sono stato a vedere L'Ultima Cena di Leonardo e mi sono reso conto di quanto sia stato importante il loro gesto». Ma proprio questo, probabilmente, è il punto debole dell'opera: salvare un'opera d'arte perdendo la vita? Nel film, che scorre con dialoghi leggeri, il tema è solo sfiorato. Un kolossal bellico-artistico non è un mix facile da realizzare. E non è detto che la consuetudine tra gli attori abbia reso più facile il compito. «Con Grant ci siamo detti che volevamo rimettere in scena un po' dello spirito dei film che ci sono piaciuti da giovani, da I cannoni di Navarone a La grande fuga. Speriamo di esserci riusciti».
In tutti i dialoghi, così come nell'umorismo di Murray e Goodman alla presentazione di ieri, scorre un filo di goliardia che ricorda il clima di Mash di Robert Altman. Umorismo che si è subito ricomposto quando è stato chiesto a Clooney un ricordo di Philipp Seymour Hoffman da lui diretto in Le Idi di Marzo: «Philip era il cuore della nostra comunità di attori e registi a Hollywood. Anche se spesso non aveva il ruolo da protagonista era comunque un personaggio centrale nei film e la sua assenza lascerà un vuoto enorme».
In serata, altro bagno di folla e assalto dei fan, al red carpet per l'anteprima a inviti. Il film uscirà nelle sale in 400 copie il 13 febbraio, a due giorni dal 70° anniversario del bombardamento dell'Abbazia di Montecassino, avvenuto il 15 febbraio 1944.
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