Chiara Muti porta a Caracalla «Dido and Aeneas»

Aveva solo sette anni. Alzandosi sulla punta dei piedi arrivava giusto alla balaustra dei palchi della Scala. Così guardava di sotto. E imparava. Assistere alle prove degli spettacoli di suo padre -specialmente a quelli con la regia di Giorgio Strehler- è il privilegio che fino ad oggi Chiara Muti ha conservato più gelosamente. «Lassù da quei palchi io assorbivo arte e cultura. Molto naturalmente: come fosse un gioco». Il che spiega perché, già sensibile e apprezzata attrice, da un anno la figlia di Riccardo Muti sia diventata anche regista lirica. E il 13 giugno inauguri la stagione estiva alle Terme di Caracalla in Roma firmando la regia del Dido and Aeneas di Henry Purcell. «Strehler me lo diceva sempre -ricorda oggi- : “Anche se vuoi fare l'attrice, sei nata regista”». Perché quando interpreto ho sempre questa necessità di “costruire” il discorso d'assieme; di pensare al mio lavoro come ad una parte del tutto». E poi ha fatto sua la regola prima della regia secondo Strehler: «Mettersi al servizio dell'autore. Non di sé stessi».
Così, la scelta di Dido and Aeneas (composta nel 1688 sul quarto libro dell'Eneide, qui con le coreografie di Micha van Hoecke e la direzione d'orchestra di Jonathan Webb) risulta particolarmente inconsueta: «Per la raffinatezza del titolo: un'opera rara del barocco inglese a Caracalla, sinonimo di titoloni popolari per grandi masse. E poi per la suggestione dello spazio: che sarà quello, più raccolto, della Palestra Orientale». Al centro dell'allestimento, per appena cinquanta minuti di musica ricca di fatti, una pedana circolare, «che simboleggia appunto il tempo rapido della narrazione, come il quadrante di un orologio azionato dal destino. I richiami al 600 inglese, fuso colle suggestive vestigia della romanità, faranno il resto». Il repertorio barocco non ha precedenti o tradizioni cui richiamarsi: il che legittima i registi a “reinventarlo”. Spesso. In modo strampalato. «Io non sono per i recuperi “museali”. Ma neppure per le follie sconclusionate. A volte vedo regie assurde di capolavori davanti ai quali bisognerebbe mettersi semplicemente in ginocchio. Insomma: io non farò mai indossare i jeans alla mia Didone.

Credo che qualsiasi buona idea sia la benvenuta, purché al servizio della musica. I capolavori non hanno bisogno delle nostre trovate. Posseggono una bellezza propria. Ed eterna. È quella, che dobbiamo sforzarci di far emergere».

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