Cultura e Spettacoli

"Il cinema per mio padre era una preghiera. Che durò per tutta la vita"

Il figlio del grande regista gli ha dedicato un documentario. Frutto di 15 anni di lavoro

"Il cinema per mio padre era una preghiera. Che durò per tutta la vita"

Escursione in una eredità. Andrej ha il viso ligneo, scolpito con l'accetta da un «folle di Dio». «La sua poesia ha avuto una grande influenza su di me, come la sua poetica». Tarkovskij, il regista di Andrej Rublëv e di Solaris, parla del padre, Arsenij. Morto trent'anni fa, Arsenij Tarkovskij è sepolto di fianco a Boris Pasternak, ha tenuto il discorso funebre, fermo e straziante - ma che dispiacque a Iosif Brodskij -, sul corpo di Anna Achmatova, è stato l'ultimo disperato amore di Marina Cvetaeva, l'ultimo poeta di una generazione leggendaria.

Pare un altro mondo, sussurro. «Lo so. La poetica di mio nonno Arsenij è stata fondamentale per mio padre, tra di loro c'era un legame artistico molto profondo». Il figlio di Andrej Tarkovskij si chiama come il padre, in questa gimkana di A, ha un delicato accento toscano, il viso nobile. Dal 2003 Andrej Tarkovskij figlio ha cominciato una lenta, letale immersione nell'opera del padre: l'esito di questa folgorante eredità è un documentario dall'estro lirico, Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer, mostrato alla recente Biennale del Cinema di Venezia, dove le poesie del nonno si mescolano a immagini e documenti del padre, montate dal figlio. Una eredità, appunto, qualcosa che ha il nitore del testamento, che ha sapore d'ostia.

«Cinema» e «preghiera»: che cosa intende?

«In una delle sue ultime interviste, che ho scoperto mentre lavoravo, mio padre dice: Per me il cinema è una preghiera. Quella frase è illuminante. Mio padre non ha mai diviso la sua esistenza tra cinema e vita privata: la sua vita era il cinema, il cinema era la vita. Cinema significava per lui porsi delle domande continue, irretirsi di interrogativi».

Domande irrequiete, spesso sconcertanti. Parlare di Tarkovskij significa affrontare il problema dei rapporti fra arte e politica.

«Che sia riuscito a realizzare certi film in Russia, in quegli anni, ha del miracoloso. Mio padre non scendeva a compromessi, ma era una persona estremamente forte, credeva di compiere qualcosa di necessario, sapeva convincere i burocrati sovietici. Certo, gli ostacoli, le invidie gli hanno permesso di fare un film ogni quattro o cinque anni...».

I rapporti difficili fra il regista e il regime sono ricaduti su di lei, alla fine. Quando suo padre decide di lasciare per sempre la Russia lei ha 11 anni.

«Sono stato ostaggio del regime sovietico per quattro anni e mezzo. Non è stato facile. Sa, alla fine con il regime riesci a convivere: ciò che ti sorprende e ti lacera è l'atteggiamento degli amici che cominciano a girarti le spalle, a non salutarti più. Studiavo a Mosca, abitavo in una casa in cui ospitavamo molte persone. Improvvisamente, la tavola era vuota. Questo gelo improvviso nelle relazioni lo ricordo ancora perfettamente. È stato difficile crescere senza genitori, tra gli 11 e i 16 anni, gli anni della formazione».

Come si rapportava con suo padre?

«Per telefono, per fortuna, ogni giorno».

Poi ci fu la fatidica lettera di Mitterrand a Gorbacëv che facilitò il ricongiungimento. Purtroppo tardivo.

«Ritrovai mio padre nel gennaio del 1986. Era già malato, era spesso in ospedale. Morì a dicembre di quell'anno. Scoprii un uomo sereno, certo che la sua ricerca fosse quasi compiuta. Mi parlava delle sue letture, Nikolaj Berdjaev, Pavel Florenskij, dell'arte come fede. Nelle ultime interviste, con la fermezza di un uomo mortalmente ammalato, dice di non avere paura della morte, di credere nell'immortalità».

Lei ha fede?

«Ho fede... ma non ho la stessa lucidità di mio padre. Posseggo il suo senso del mistero, sento il miracolo di cui è intrisa la vita».

Quale insegnamento ha dato il padre Tarkovskij al figlio?

«Che l'arte non è scissa dalla vita. Che bisogna essere sempre lo stesso uomo, osando scelte precise di vita, affrontando la spiritualità».

Che cosa ha scoperto di suo padre lavorando al documentario?

«Più che altro, ho avuto delle conferme. Mi è sembrato più evidente, più forte il messaggio spirituale della sua opera».

Emerge, prepotente, il rapporto tra suo padre e suo nonno, tra il regista e il poeta.

«La poetica di mio nonno Arsenij è fondamentale, mio padre lo sottolinea continuamente. Nel documentario ho utilizzato le registrazioni di alcune poesie di Arsenij scelte da mio padre per Lo specchio, poi non entrate nel film. Corrispondono a una scelta autobiografica precisa».

Torna spesso in Russia?

«Ho degli amici. Mio padre ora è un regista amatissimo. A fine ottobre è prevista la proiezione del mio documentario, ne sono felice».

Mi dica quel è il film di suo padre che ama di più, quello che consiglia a un ragazzo iniziandolo al cinema di Tarkovskij.

«Sono stato sul set di Stalker, l'ho visto nascere, per me quel film ha un valore biografico speciale. Come Sacrificio. A un ragazzo consiglierei di partire da Lo specchio, perché ha un impatto emotivo immediato. Si entra in Tarkovskij dal lato emotivo, attraverso la compassione.

Quella che manca, oggi».

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