nostro inviato a Verona
Chissà cos'ha pensato ieri sera Coez arrivando sul palco dell'Arena di Verona, luogo favoloso e pazzesco che ha fatto tremare le gambe a giganti come Elton John o gli Who. Per lui, passato da writer e da rapper nella periferia romana, è il passo giusto dopo due dischi (Faccio un casino e È sempre bello) che sono diventati trasversali perché mescolano nel pubblico i ragazzini e chi crede che una bella canzone debba aver un bel testo. E, a giudicare dalla platea qui all'Arena, è proprio questo «crossover anagrafico» che ha trasformato il leader del collettivo Brokenspeakers in un riferimento sia delle radio (La tua canzone è alta nelle playlist) che della «musica liquida», ossia dello streaming. In pratica il punto d'incontro tra i temi rap, che spesso sono gergali, e quelli cantautorali bisognosi di versi e immagini che lascino il segno. «Da ragazzetto, a scuola, sembravo quasi bipolare - diceva ieri prima di debuttare - perché scrivevo testi rap ma anche canzoni d'amore. E forse questo è il mio obiettivo: mescolare i due mondi, trovare un linguaggio che usi entrambi i vocabolari e trovi i punti in comune». In fondo è firmato da lui uno dei versi più azzeccati degli ultimi tempi, quel «scusa se non parlo abbastanza ma ho una scuola di danza nello stomaco» (da La musica non c'è del 2017) che descrive perfettamente l'emozione muta e attonita di chi si sta innamorando. All'Arena di Verona c'è stata in pratica la cerimonia di laurea di un 36enne riservatissimo, pieno di dubbi, che alle spalle ha il curriculum tipico del musicista di una volta, fatto cioè di lavori precari, molti sogni, concerti nei localini o nei localacci, vita in attesa del dopo. Senza talent show alle spalle. Senza quella voluta, esagerata sovraesposizione che garantiscono le stories su Instagram, i tweet polemici o i «dissing» con altri artisti che creano popolarità ma non aumentano la qualità della musica né la resistenza dell'artista allo scorrere del tempo e delle mode. «Sono stato per un po' schiavo dei social perché in poco tempo sono passato da poche decine di migliaia di follower a oltre mezzo milione. E allora vivevo attaccato allo smartphone. Poi mi sono disintossicato e adesso li uso soltanto per comunicare le mie novità di lavoro. Diciamo che la socialitudine mi aveva preso la mano». Anche per questo, scherza, qualcuno si lamenta della sua latitanza. Forse in Coez, che si chiama Silvano Albanese ed è nato a Nocera Inferiore prima di arrivare a Roma da bambino, c'è il segnale (si spera) di un cambiamento: meno tweet, più musica. Visto il successo, fatto di primi posti e dischi d'oro, non rimarrà un caso isolato. «All'Arena inizia il mio primo tour nei palazzetti e ho sempre paura che il pubblico non mi conosca bene - dice - magari qualcuno mi scambia per Fedez perché in fondo il mio nome finisce con la zeta come il suo. Ma non siamo la stessa cosa». E il concerto, che mette di seguito 26 brani con pochissime parole tra un pezzo e l'altro, è il biglietto da visita di un ragazzo che è rimasto fuori dal coro, facendo mediamente il contrario di quasi tutti. «Anche qui non ho voluto nessun ospite con me sul palco», conferma lui che poi riassume: «Ho fatto un disco senza featuring e il mio tour, che passerà da Torino, Milano e altre grandi città, sarà senza visite di altri cantanti. Non è snobismo, è semplicemente il mio modo di essere» dice parlando lento, ragionando su ogni parola, insomma il contrario di quelle mitragliette che di solito sono i rapper mentre parlano dei loro programmi. E quando spunta sul palco in mezzo agli altri cinque musicisti, le parole stanno a zero, nel senso che proprio non ne dice. Ritmo serrato. Niente ciance. Quattro pezzi uno di seguito all'altro senza interruzione, roba che non succede quasi mai: Mal di gola, Gratis, Faccio un casino e Catene che, tra l'altro, è un suo manifesto perché mescola rap con metrica cantautorale. «Non so come spiegarmi, io faccio le cose passo dopo passo, ci rifletto e poi vado avanti. Prima di venire all'Arena di Verona ho pensato ad altri miei colleghi che sono passati dai club agli stadi facendo una progressione enorme. Io preferisco andare piano anche perché, se ci penso, quando ho iniziato mai mi sarei aspettato di trovarmi all'Arena di Verona dalla parte dell'artista e non del pubblico».
In poche parole (letteralmente), ieri sera è stata la prova generale di un potenziale grande fenomeno che ha finito il concerto con una dichiarazione d'intenti, il brano La strada è mia. E finora l'ha percorsa mettendo insieme talento e silenzio, diventando un caso a se stante in quell'arena chiassosa che è il pop di oggi.
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