La cultura è ostaggio dei burocrati statali, per liberarla servono pluralismo e mercato

Un volume a cura di Cavazzoni contro il finanziamento pubblico delle arti

La cultura è ostaggio dei burocrati statali, per liberarla servono pluralismo e mercato

Siamo sicuri che lo Stato sia sempre il migliore gestore dei beni culturali? E che una cultura amministrata dal pubblico possa rimanere libera e indipendente? E siamo davvero persuasi che le arti e lo spettacolo non possano trovare spazio entro il mercato, traendo beneficio da imprenditoria e concorrenza?

Muove da questi interrogativi il volume curato da Filippo Cavazzoni e intitolato Il pubblico ha sempre ragione? Presente e futuro delle politiche culturali (edito da IBL Libri e in vendita al prezzo di 18 euro), in cui sono esaminati i vari ambiti della vita culturale e le diverse forme dell'intervento statale. Nel libro si parla quindi di musei, biblioteche e siti archeologici, ma anche della moderna industria culturale: dal cinema al teatro, dall'editoria alla musica, senza ignorare le tecnologie più recenti. E il punto di vista è quello liberale, che valorizza la naturalezza delle interazioni sociali a scapito delle logiche dirigiste che prevedono tassazione, programmazione, redistribuzione e censura.

Nella prefazione, Guido Vitiello evidenzia come da tempo l'Italia attendesse tale volume, capace di mostrare i «malanni di una cultura appesantita dai troppi sussidi pubblici» e di sottolineare che lo Stato a ogni latitudine quando finanzia la cultura genera «una fauna parassitaria di burocrati tonti, di mediocri di talento e di sindacati irresponsabili». Un potere statale in costante espansione non soltanto produce le Alitalia fallimentari che conosciamo, né unicamente s'arena per decenni sul tratto stradale che dovrebbe condurre da Salerno a Reggio Calabria, ma è in grado di moltiplicare sprechi e corruzione anche tra quanti si occupano professionalmente di Botticelli, Mozart o Montale.

La crisi della nostra civiltà dipende moltissimo da un dato poco riconosciuto: il diffuso prevalere della burocrazia in ogni settore e, in particolare, nell'istruzione e nella trasmissione del patrimonio culturale. Nei loro saggi, i venti autori prendono in esame temi molto diversi, ma in linea di massima sono tutti chiamati a chiedersi su cosa debba essere lasciato allo Stato (se qualcosa va lasciato) e cosa invece debba essere restituito all'iniziativa dei singoli e alle scelte dei consumatori. Oltre a considerazioni economiche sulle riforme che potrebbero essere messe in campo per uscire da una cultura egemonizzata dalla politica (ricorrendo, ad esempio, allo strumento del voucher, come suggerisce Angelo Miglietta) il testo include considerazioni sulle implicazioni illiberali di quell'eterno Minculpop che accompagna ogni presenza dello Stato nell'ambito della cultura. L'ombra di Zdanov, che per più di un decennio gestì la cultura sovietica, sembra allora aleggiare su tutto, dato che il socialismo produce ovunque i medesimi problemi. Cavazzoni e gli altri autori prendono per mano il lettore, facendolo riflettere su alcuni fatti elementari: che non tutte le spese per la cultura sono opportune (nonostante quello che spesso si sente dire); che affidare allo Stato i nostri migliori «giacimenti culturali», per usare la formula di Gianni De Michelis, in troppi casi vuol dire condannarli a un futuro triste; che la cultura ha bisogno di libertà e pluralismo, e quindi malsopporta il dirigismo; e, infine, che l'ordine di mercato è un innovativo processo di scoperta, capace di dare risposte non scontate anche ai problemi intricati.

Quanti per decenni hanno ripetuto che l'educazione nazionale, la lirica o la ricerca pura avrebbero necessariamente bisogno dello Stato (e cioè di risorse messe a disposizione da proprietari riluttanti) sono spesso smentiti dalla realtà. E neppure va dimenticato, come si sottolinea nell'Introduzione, che «una piattaforma nata e alimentata spontaneamente dal basso come YouTube, pur avendo al suo interno quasi ogni genere di filmato, forse ha fatto più per la democratizzazione della cultura e la sua accessibilità di costose politiche culturali adottate dai singoli Stati europei». Gli azionisti di YouTube inseguono il profitto, ma in tal modo permettono a chiunque di ascoltare, senza alcun costo, questo o quel brano di Claudio Monteverdi o Gustav Mahler.

Alla rigidità dello Stato e alla corruzione che l'accompagna, il volume antepone la multicolore varietà delle nostre scelte e delle

nostre iniziative. E in tal modo mette sotto scacco anche il permanere di obblighi e gabelle si pensi al canone Rai, di cui parla Massimiliano Trovato sempre meno giustificabili nell'era degli smartphone, di Sky e di Netflix.

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