Per dieci anni ha scritto per altri (soprattutto per Nek, con cui ha vinto il Festivalbar componendo Lascia che io sia) poi ha deciso di scendere in campo e di fare il cantautore e molti lo hanno definito l'erede di Van De Sfroos. Non tanto perché canta in dialetto, ma per l'attaccamento alle tradizioni del suo territorio, il piacentino, e al tempo stesso per il suo sguardo curioso verso l'attualità. È Daniele Ronda, che dopo Daparte in folk (Premio Mei come miglior album in dialetto) e La sirena del Po (oltre 10mila copie vendute) arriva al nuovo album La rivoluzione che è balzato ai primi posti delle classifiche indipendenti. Un disco pulito, ricco di influenze diverse nel tentativo di trovare una strada autarchica nonostante gli inevitabili riferimenti ai suoi maestri, che vanno da De André a Vecchioni passando per Dylan e Springsteen. C'è una vena più pop nell'album, ed è scomparso il dialetto, ma non è la voglia di commercializzare il proprio stile o di fare l'occhiolino al mercato. «Per me il folk significa mettere la storia al servizio del futuro - sottolinea Ronda - creare un crossover dove il folk è la matrice che si apre per mescolarsi con altri mondi musicali. Per quanto riguarda il dialetto non ho mai pensato a percentuali tipo quote rosa nelle mie canzoni. Ho raccontato le mie cose e solo alla fine mi sono accorto che era tutto in italiano; testimonia il mio legame con le radici, la voglia di alzarsi in piedi e gridare quello che succede nella mia terra.
In questo senso la mia band, i Folkclub, sono un laboratorio aperto che mi sostiene». Il punto di forza di Ronda sono i concerti e proprio in questi giorni parte la tournée che lo vedrà protagonista per tutta l'estate in tutta Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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