È uno dei grandi testi della filosofia politica della prima metà del Novecento che qualsiasi uomo di media cultura dovrebbe leggere. Per questo, visto che mancava da molto nelle librerie, hanno fatto benissimo le edizioni Gog a pubblicare una nuova edizione di Potere. I geni invisibili della città, di Guglielmo Ferrero, con una introduzione di Luca Giannelli (pagg. 380, euro 17).
L'autore è uno dei maggiori dimenticati, anzi diremmo epurati, della cultura italiana del Novecento. In seguito alla morte, avvenuta nel 1942, poco dopo aver terminato questo volume, sulla sua opera è precipitata la damnatio della cultura marxista, di quella cattolica e di quella crociana, il cui capostipite disprezzava Ferrero tanto che, nel 1910, si era impegnato con successo per evitare che gli fosse assegnata una cattedra all'Università La Sapienza di Roma. La visione ferreriana della storia, ciclica e tutt'altro che progressiva, infastidiva lo storicismo crocio-marxista: non c'era spazio per le classi, nella sua visione del potere, e men che meno per una postura irenica in cui la libertà trionfa. Al contrario, c'è la cruda lotta della natura umana (un concetto sbeffeggiato da crociani e marxisti) contro la propria tendenza al male, c'è la vocazione del potere a diventare macchina che si autoperpetua: secondo la tesi della grande sociologia italiana dei Mosca, dei Pareto e dei Michels, con cui Ferrero intrattenne sempre rapporti. Se fino agli anni Venti egli poté definirsi di sinistra, tra socialismo riformista e radicalismo, a partire dagli anni Trenta divenne un conservatore: e di fatto Potere è un grande testo della tradizione conservatrice italiana. Che in prima edizione fu pubblicato, però, a New York, in francese perché, da conservatore, Ferrero aveva lasciato l'Italia fascista e si era trasferito a Ginevra, dove negli ultimi anni intraprese la cosiddetta «trilogia della legittimità», di cui Potere fu il compimento.
Per Ferrero il potere è l'essenza della politica, il primo fattore che spinge gli attori: la sua occupazione è il movente fondamentale e lo è il suo mantenimento quando esso è stato conquistato. Tutti in realtà sono attratti dal potere perché l'uomo per Ferrero è essenzialmente un essere che teme: è la paura a distinguere l'uomo dall'animale. Così le masse, anzi le folle, si muovono, scendono nelle piazze, compiono le insurrezioni, per paura, come per paura reagisce chi sta al potere. Paura essenzialmente di essere uccisi. Qui Ferrero scava nella radice più profonda del Politico, nella sua natura ctonia, che in buona sostanza è quella della guerra: o uccidi il nemico o sei ucciso. Riflessioni che negli anni precedenti aveva compiuto il giurista tedesco Carl Schmitt, e che prima della guerra troviamo nel Collège de sociologie di Georges Bataille, in Alexandre Kojève, in Roger Caillois, e poi nel libro Du Pouvoir, che Bertrand De Jouvenel compose, in esilio in Svizzera, negli stessi anni. Tutte considerazioni sul carattere sacro e, in quanto sacro, omicida, del Politico, che nutrirono anni dopo Elias Canetti con Massa e potere e René Girard. Solo che Ferrero vi era arrivato già negli anni Dieci, nei suoi volumi sulla Grandezza e decadenza di Roma, di cui Potere era quasi una ripresa, ma su un piano più teorico.
L'altro principio base che regge il potere è la legittimità. Proprio perché la politica è un'attività che confina con il sacro, il detentore del potere politico deve possedere un principio di legittimità, per cui egli è il capo che guida la massa. E questo criterio non può essere semplicemente quello della legalità, come vuole il liberalismo: la caduta di quasi tutte le democrazie, negli ultimi anni di vita di Ferrero, dimostrava che esso non bastava. Il liberalismo aveva distrutto il principio su cui si fondava il potere dei Re, che per diversi secoli era riuscito a mantenere la legittimità, ma non ne aveva introdotto uno altrettanto forte. Per Ferrero tutta la storia dopo il 1789 è un ciclo continuo di rivoluzioni, cioè in realtà di esplosioni di folle insurrezionali votate alla distruzione, e di dispotismi, entrambi scanditi dalla violenza, prima quella delle folle, poi quella dei capi, tutti per opposte ragioni impauriti. Il principio di sovranità nazionale introdotto dalla Rivoluzione francese ma poi ripreso nella sua pars construens dal Congresso di Vienna, era riuscito a fornire un ordine all'Europa per un secolo, ma la Grande guerra l'aveva spazzato via e le tendenze cosmopolitiche degli anni Venti e i disegni di «sovranità europea», presenti negli ambienti attorno alla Società delle nazioni, avevano incrementato il disordine.
Ferrero non offre soluzioni, il suo libro termina, senza previsioni e speranze, con lo stesso accento cupo che ritma tutto il volume.
Questo spiega il suo oblio negli anni apparentemente stabili della seconda metà del Novecento: la diagnosi di Ferrero sembrava smentita. E invece no, quello era solo un ciclo. Dopo il crollo del Muro di Berlino e soprattutto dopo la crisi del 2008, il caos è tornato, facendo di Potere un testo più attuale che mai.
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