Feste e omicidi di Escobar re della coca e del cinema

Ennesimo film sul narcotrafficante colombiano. Eppure funziona. Bardem a tratti memorabile

Feste e omicidi di Escobar re della coca e del cinema

Dal nostro inviato

Venezia criminale. Mafia, sangue e narcotraffici. L'onda lunga della Mostra di Venezia nello stesso giorno deposita sulla spiaggia del Lido l'ammore e le sparatorie del musical camorrista dei Manetti Bros. e, nella sala accanto, le lacrime e il sangue di Loving Pablo, film di Fernando León de Aranoa con Javier Bardem e Penélope Cruz su vita strafatta e orrendi misfatti di Pablo Escobar, il più temuto Signore della droga al mondo: nato povero, tirato su ad assassini e ambizione, morto sparato e, in anni recenti, assurto a icona maligna, mediaticamente redditizia, da cinema e tv. Dopo la serie Pablo Escobar: el Patron del mal prodotta dal network colombiano Caracol, dopo il film Escobar di Andrea Di Stefano con Benicio del Toro, dopo la monumentale serie Narcos firmata Netflix oggi il Re della coca ha la maschera sfatta e il corpo panciuto (con una fuga chiappe al vento nella giungla che resterà negli annali del cinema) di Javier Bardem, il quale qui riscatta la poco credibile interpretazione in mother!, passato due giorni fa alla Mostra. Accanto a lui, anche lei trasformata da trucco e look anni Ottanta, e anche lei decisamente in parte, una sexy Penélope Cruz (moglie di Bardem nella vita e amante di Escobar nel film) che interpreta la giornalista televisiva Virginia Vallejo: amando Pablo e odiando Escobar (Loving Pablo, Hating Escobar è il titolo della biografia da cui è tratta la pellicola) con lui divise ascesa, passioni, glamour, orrori e caduta. «Un po' per il trucco che rendeva orribile Javier, un po' per l'energia negativa che sprigionava il personaggio di Escobar, a un certo punto non vedevo l'ora finissero le riprese», ha confessato dopo la proiezione. La cronaca, però, registra che ieri sera sul red carpet la coppia era favolosa.

Biopic, cocaina e grandi star. Attenzione, Loving Pablo non euforizza, ma è eccitante. Giusto che sia nella sezione Fuori concorso. È convenzionale ma confezionato benissimo, anche se l'esigenza di vendere il prodotto sul mercato internazionale costringe la produzione a far parlare gli attori in un inglese con accento spagnolo, con un effetto estraniante Il film non cerca giudizi morali, vuole però entrare nella personalità dell'uomo che instaurò un regno del terrore nel suo Paese. E nel sentire raccontare una storia già sentita (anche se sui social ieri molti chiedevano che senso avesse fare un altro film su Escobar dopo Netflix) non ti capita mai di guardare l'orologio perché le due ore di film sono una vera inalazione di orrore e splendori: c'è la povertà inenarrabile nei peggiori quartieri subumani di Bogotà e Medellin, il lusso pacchiano delle residenze del Pàtron (nel 1989 Escobar fu nominato dalla rivista Forbes il settimo uomo più ricco del mondo con i suoi 25 milioni di dollari), ci sono feste memorabili e omicidi inenarrabili (si segnala la sequenza in cui un traditore è giustiziato legandogli sulla schiena un cane lupo che, bastonato a sangue, lo azzanna per reazione alla gola), e poi la vita dentro la Catedral (la prigione di lusso che il Governo permise a Escobar di costruire per sé, quando si costituì in cambio della non estradizione), un luogo in cui entravano puttane per tutta la settimana, e la domenica la famiglia «Volevo entrare nella testa di un uomo che amava i bambini e faceva ammazzare i loro padri, che costruiva case per i poveri e nello stesso tempo commetteva crimini orrendi», ha spiegato Bardem, anche produttore del film. Non sappiamo se c'è riuscito.

Ma, cinematograficamente, è difficile rimanere insensibili all'attrazione e alla repulsione senza uguali che avvolgono il protagonista di uno dei decenni più violenti della storia recente. Del resto il cinema non deve cambiare il mondo. Solo mostrarcelo.

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