Il film del weekend: "Boyhood"

Un film unico, capace di celebrare con naturalezza e realismo il quotidiano impegno della crescita e di generare empatia universale

Il film del weekend: "Boyhood"

l regista Richard Linklater, noto per la trilogia composta da "Prima dell’alba", "Prima del tramonto" e "Before Midnight", firma col suo ambizioso "Boyhood" quello che è quasi certamente non solo il capolavoro della sua carriera ma uno degli esperimenti cinematografici più interessanti degli ultimi anni. Si tratta di una pellicola girata, sempre con lo stesso cast, in soli trentanove giorni diluiti però in un arco di tempo di ben dodici anni e che reinventa quindi il concetto di realismo cinematografico perché dà la possibilità di veder letteralmente crescere e invecchiare sullo schermo i protagonisti, senza l'impiego di alcun artificio.

Alla base del progetto non c'è una trama tradizionale, quanto la voglia di seguire da vicino le fasi della crescita di un bambino dai 6 ai 18 anni d'età. Il piccolo in questione si chiama Mason (Ellar Coltrane) e vive in Texas con la madre Olivia (Patricia Arquette) e la sorella di poco più grande, Samanta (Lorelei Linklater, figlia del regista). I suoi genitori sono separati per evidente incompatibilità caratteriale, eppure il padre, Mason Senior (Ethan Hawke), è una figura abbastanza presente e fa di tutto per non perdere di vista i suoi figli nonostante questi siano costretti a vari traslochi a seguito delle sfortunate peripezie sentimentali della madre.

Budget ridotto, fervido ottimismo, grande mestiere e molta pazienza hanno dato luogo a un lavoro di certosina genialità. "Boyhood" è la magia della vita condensata in un film, perché ritrae qualcosa vissuto da tutti: l'esperienza della crescita. Nel farlo, predilige soffermarsi su momenti apparentemente dimenticabili piuttosto che su eventi eccezionali, come a voler sostenere che c'è più significato nelle giornate ordinarie che in quelle straordinarie perché è nell'accumulo di giorni tutti uguali che la nostra vita si specchia in quelle altrui. Le tre ore di durata allacciano lo spettatore grazie ai dettagli e vantano un retrogusto più allegro che malinconico. Al centro di tutto, la poesia della normalità; basti pensare alla scena iniziale (ripresa nella locandina del film) in cui Mason è un bambino sdraiato nell'erba e intento a guardare il cielo, come fosse un fiore in attesa di sbocciare.

Gli adulti vengono raffigurati in pieno disordine esistenziale, intenti ad imparare dai propri errori e colmi di preoccupazioni che lasciano indifferenti i figli, presi invece dalle prime misurazioni del mondo circostante. Tutti assieme formano una famiglia media americana, a suo modo disfunzionale come oramai lo sono un po' tutte anche al di qua dall'oceano. Ad amplificare la sensazione di vicinanza tra schermo e platea, si intravedono riferimenti a svolte sociali, piccole o grandi, di cui siamo stati tutti recenti testimoni: non solo cambiamenti musicali e tecnologici ma anche eventi databili come l'avvento di Harry Potter o la campagna elettorale di Obama.

Il focus della narrazione, ad ogni modo, rimane sul processo di formazione della personalità del piccolo protagonista che ci ricorda che siamo forgiati da imprinting positivi e negativi, così come da legami familiari che sono ora fonte di stabilità ora di caos.

I personaggi, interpretati con vivida naturalezza, danno luogo a un mosaico di emozioni universali e, nel loro continuo improvvisare e sperimentare, raccontano il nostro stesso divenire. Un'esperienza unica d'immedesimazione collettiva.

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