Cultura e Spettacoli

Quel Greene ultracattolico contestato dal Sant'Uffizio

Ne "Il potere e la gloria" lo scrittore difendeva la fede contro i comunisti messicani. Ma non venne capito

Quel Greene ultracattolico contestato dal Sant'Uffizio

Il vero maschio era la sorella. Dieci anni più giovane, di una qualche rapace sensualità, Elizabeth entrò nell'MI6, i servizi inglesi, nel 1938, poco più che ventenne. Il fratello Graham era in Messico: battezzato cattolico il 26 febbraio del 1926, su ispirazione della futura moglie Vivien Dayrell-Browning, fedifrago si sa, il tradimento eccita se frollato nella colpa , voleva ammirare la Chiesa sofferente, perché l'ambizione di ogni buon cristiano è farsi martire. Dal viaggio in Messico patria di un autentico Grand Tour: vi passarono, per ragioni diverse, pur sempre alcoliche, Antonin Artaud, Malcolm Lowry, D.H. Lawrence, Hart Crane tornò con un pamphlet corrosivo, The Lawless Roads, che censiva la brutalità anticlericale del presidente messicano Plutarco Elías Calles e del suo molosso a Tabasco, Tomás Garrido Canabal, e con un romanzo. Il potere e la gloria, libro di torbida bellezza, è pubblico nel 1940 negli States esce, in prima tiratura, con un titolo un po' folle, The Labyrinthine Ways , garantisce a Greene il successo desiderato e l'accesso, grazie ai favori della sorella, tra le maglie dell'MI6. Elizabeth salutò l'uscita del romanzo dal Cairo, dov'era a servizio dei servizi: s'innamorò di Rodney Dennys, eccellente militare dell'Intelligence Corps, a cui si unì nel 1944; dal matrimonio spuntarono tre figli, fatti tra Egitto, Turchia e Parigi, dove la coppia era in missione. Graham dedicò alla sorella uno dei libri notevoli, Il fattore umano; le lettere di Elizabeth furono utili a Michael Ondaatje per dare atmosfera al suo romanzo più noto, Il paziente inglese. Ma questa è un'altra storia.

Il potere e la gloria fu tradotto quasi subito in Italia, da Elio Vittorini, poi, col nuovo millennio, da Adriana Bottini (versione, questa, ora ristampata da Mondadori per festeggiare i primi 80 anni del romanzo, pagg. 284, euro 14); nel 1947 fu storpiato in film da John Ford, con Henry Fonda protagonista (The Fugitive, in Italia è passato come La croce di fuoco; il prete alcolizzato in quinta messicana lo interpreta meglio Richard Burton, però, in un bel film di John Huston, La notte dell'iguana).

È un libro scritto con l'energia dell'anatema e l'erotismo della pietà: il prete peccatore, ubriaco, che professa la fede a morsi in una terra dove Dio e i suoi seguaci sono al bando, braccati, seviziati, pare un incrocio tra Falstaff e San Pietro, eretto al tradire. Tutto compresa la scrittura, sempre sorprendente, di Greene è carnale e corrotto, qui. Il prete è «vecchio molto grasso ansimava», si è preso una donna, l'ha fatta madre di una figlia grave di malizia («Sorprese negli occhi della bambina quello sguardo che gli metteva paura: come se là dietro ci fosse, prima del tempo, una donna adulta, che capiva troppe cose»), rutta, si lancia, dal pozzo dell'inquietudine, in teologie ostili, «Chissà, poteva esistere un mondo nel quale Cristo non era morto. Il vecchio non riusciva a credere che per un osservatore di lassù il nostro mondo potesse risplendere: no, doveva rotolare pesantemente nello spazio, avvolto nella sua nebbia come una nave in fiamme e abbandonata. L'intero globo, pensò, è ricoperto dalla coltre del mio peccato».

Secondo Mario Praz, a ragione, Il potere e la gloria è un «capolavoro», frutto «d'un cattolicesimo meticoloso e intransigente» che «imparenta Greene con certi scrittori francesi (Mauriac, Bernanos, Daniel Rops e Pierre-Jean Jouve)».

Più che setacciare parentele in Francia, Greene come Dostoevskij prima di lui si riferisce, per etica ed estetica scrittura spezzata, morbosa, che violenta la frase, che blandisce con il paradosso , alle lettere di San Paolo, di fuoco. «Sono un sacrilegio vivente, pensò. Dovunque andasse, qualunque cosa facesse, profanava Dio», dice di sé il prete. «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo», dice di sé Paolo (1 Cor 15, 8-9).

La questione non fu chiara ai tutori della verità vaticana. Nel 1953, tredici anni dopo l'uscita del romanzo, il Sant'Uffizio invia una lettera al Cardinale Bernard Griffin in Westminster stigmatizzando i contenuti del libro di Greene, chiedendo di bloccare altre traduzioni. Di fatto, è una messa all'indice. Il Cardinal Griffin obbedì emanando una lettera pastorale in cui bacchettava gli «scrittori cattolici caduti in errore», i quali «in romanzi che pretendono di essere veicolo della dottrina cattolica, ostentano una sfrenata rappresentazione di condotte immorali capaci di mettere in crisi i lettori». Greene, con penna intinta in ironia cinica, scrisse al Cardinal Giuseppe Pizzardo, Segretario della Congregazione del Sant'Uffizio. «Vostra Eminenza comprenderà quanto sono stato sconvolto nell'apprendere che Il potere e la gloria è stato oggetto di critiche da parte del Sant'Uffizio. Scopo del libro è mostrare la forza dei sacramenti e l'indistruttibilità della Chiesa contro il potere meramente temporale di uno stato comunista... Posso ricordare a Vostra Eminenza che il libro fu scritto tra il 1938 e il 1939, ben prima che quella stessa minaccia che ho osservato in Messico si diffondesse in Europa?». A difendere Il potere e la gloria dal chiasso clericale, solo, fu l'allora Monsignor Montini, giudicandola «opera di singolare valore letterario altamente apologetica». La questione finì lì. Il 13 luglio del 1965 Montini, nel frattempo diventato papa Paolo VI, incontrò in udienza privata Greene.

«Tutti i santi hanno vissuto fino all'ultimo respiro l'orrore del loro niente, della loro peccaminosità», scrive Lev estov, una buona guida per capire Greene.

Il prete scandito dalla colpa protagonista de Il potere e la gloria, non ha un nome. D'altronde, siamo tutti chiamati, tutti innominati, in attesa della chiamata, che qualcuno ci dica, e tu mi vuoi bene?

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