La guerra di mafia che ha cambiato Palermo (e l'Italia)

Matteo Sacchi«Io vi auguro la pace, signor Presidente. Perché la pace è la serenità dello spirito e della coscienza». Queste sono le parole che Don Michele Greco, detto il «Papa», rivolse ai giudici nell'aula bunker di Palermo nelle battute finali del Maxiprocesso, probabilmente il più grande processo penale della storia italiana, sicuramente il primo colpo veramente duro alla struttura della mafia. Le disse con tono grave, sillabandole bene nel microfono della gabbia degli imputati, agitando la mano, fasciato in un elegante vestito grigio e con una cravatta blu. Era una minaccia, neanche velata. Gli rispose con calmo coraggio il presidente della corte Alfonso Giordano: «È quello che ci auguriamo anche noi». Trentacinque giorni dopo (la più lunga camera di consiglio che il nostro Paese ricordi) i giudici rientrarono in aula, era il 16 dicembre 1987. Diciannove tra boss e killer (basti ricordare Michele Greco, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano) vennero condannati all'ergastolo. Altri 327 imputati vennero condannati, 114 gli assolti. Finì così il lunghissimo dibattimento che era iniziato il 10 febbraio del 1986 (trent'anni fa) dopo 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive. Una conferma sostanziale degli incartamenti costruiti con pazienza da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. La Mafia continuò a colpire anche dopo, come una belva ferita. E la sua furia omicida travolse anche Falcone e Borsellino. Ma quel processo aveva segnato una stagione nuova.Ed è proprio da quel processo che prende il via il libro di Antonio Calabrò I mille morti di Palermo. Uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l'Italia (Mondadori, pagg. 256, euro 18,50). Calabrò - giornalista, scrittore, caporedattore de L'Ora negli anni della «guerra di mafia» - usa la documentazione di quel processo, e non solo, per ricostruire il feroce conflitto interno a Cosa nostra che insanguinò la Sicilia tra il 1979 e il 1986. Come dice il titolo, mille morti nel solo capoluogo. Numeri da vera e propria guerra civile. Una mattanza resa più atroce dalla «lupara bianca»: molte persone vennero rapite e semplicemente non se ne seppe più nulla (una triste anticipazione di questo metodo si ebbe nel 1970 con la cattura e l'uccisione del giornalista de L'Ora, Mauro De Mauro). Quella di Calabrò non è una semplice cronaca, fornisce una chiave interpretativa di quell'esplosione di violenza, caratterizzata dall'ascesa al vertice di Cosa nostra dei Corleonesi che scalzarono i precedenti boss come Stefano Bontade (crivellato di colpi nella sua auto). Come spiega bene Calabrò, non tanto una guerra tra clan ma una guerra tra una nuova generazione in ascesa che ragionava coi ritmi e il senso economico di una criminalità internazionale, verticistica e senza mediazioni, e un modello legato a vecchi e più caserecci (che non significa meno spietati) feudi del malaffare.

Furono questi «manager del crimine» ad alzare il livello dello scontro sino a colpire esponenti dello Stato di primo livello come Carlo Alberto Dalla Chiesa. Solo con la sua morte le leggi antimafia uscirono dal limbo parlamentare. E iniziò, troppo tardi e lentamente, una presa di coscienza collettiva.

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