Nessuno vorrebbe avere il proprio padre seduto tra gli studenti mentre racconti e spieghi l'Odissea. Se poi il padre è geniale, impertinente e con lo sguardo dolce da vecchio matematico è anche peggio. Non importa se ti chiami Daniel Mendelsohn e scrivi sul New Yorker e il tuo romanzo, Gli scomparsi, ti ha reso piuttosto famoso e le tue lezioni sui classici sono un appuntamento da non perdere. Nessuno vorrebbe, ma poi scopri che è come navigare in acque sconosciute e scoprire che tu, Daniel, sei meno confuso di telemaco e Joy, tuo padre, meno stronzo di Ulisse e tenero come il vecchio Laerte. Mendelsohn insomma ti racconta Un'Odissea (Einaudi). È la sua, ma come tutte le odissee è universale.
Perché suo padre le chiese di partecipare al seminario?
«Per conoscere il figlio, per fare i conti con se stesso, come padre, come uomo. Per insegnarmi ad attendere l'inatteso e a fare i conti con la morte. Perché così ho capito anche molte cose di me stesso».
La vostra personale odissea continua con una crociera, l'ultima?
«È una crociera sul Mediterraneo sulle tracce di Odisseo. È la mia storia, quella di un uomo che piange davanti alla vecchiaia di suo padre, alla prospettiva della sua inevitabile scomparsa, la resa dei conti di un esperto narratore che davanti agli ultimi giorni del padre è costretto a fare i conti con la verità».
La scomparsa e la ricerca di un padre. È un tema forte della letteratura. È il viaggio a ritroso di Telemaco e l'ossessione di Amleto...
«Amleto è un Telemaco senza il conforto di Atena. Non ha aiuti. Non ha mentori. Non ha una strada da seguire o una mappa. È solo con la sua disperazione davanti a un mondo ingiusto. Tutti e due però si ritrovano nella stessa condizione: sono figli senza padre».
Un padre matematico e un figlio scrittore: dove c'è il vostro punto d'incontro?
«Nella bellezza. Racconto che mio padre considerava My Funny Valentine la canzone più vicina all'ideale matematico. Ha quello che piace a noi fissati per i numeri: semplicità ed eleganza. Dice il massimo con il minimo spreco di risorse. È come una funzione matematica che spiega con pochi passaggi il mistero dell'universo. Dice tutto sull'amore».
E cosa dice sull'amore?
«Racconta la bizzarria dell'amore. Una persona può essere piena di difetti, sei consapevole di tutto ciò che non va in lei. Eppure la ami. You're my favorite work of aaart».
Sua madre era d'accordo?
«Sì, noi figli pensavamo che non avessero nulla in comune. Ci sbagliavamo. Il loro amore era vero, perché sapevano riconoscersi e sopportarsi nelle differenze, nelle diverse manie o visioni del mondo. Il mio in fondo è proprio questo: un romanzo familiare. La storia di un figlio che riesce finalmente a vedere suo padre e sua madre con occhi diversi. Capisce perché sono riusciti a stare insieme una vita, indispensabili l'uno per l'altra. Un figlio che finalmente comprende come il padre abbia trovato nella madre la colonna indispensabile per riuscire ad andare avanti nella vita. Tutti e due sono sopravvissuti alle fatiche quotidiane con un patto ferreo: attendersi l'inatteso. Non dare mai nulla per scontato».
Sua madre come Penelope?
«In qualche modo sì. Mio padre vagava nel suo universo. Affrontava il mondo. Viveva in funzione della sua professione. Mia madre non lavorava. Aspettava il suo ritorno. C'è qualcosa di Penelope in lei. Solo che devo ammettere che mia madre era molto, molto più spiritosa».
Ma in Penelope c'è anche qualcosa di Ulisse?
«Non c'è dubbio. Penelope per vent'anni tesse e disfa una tela. Anche questo è un atto di grande furbizia. È una astuzia meno spaccona, più silenziosa, che cela invece di svelare o mostrarsi. È una scelta che vive di bugie. È un raggiro. Dimostra coraggio, forza e perseveranza. Penelope non è un personaggio debole. È il contrario. Penelope resiste. Ti fa capire che il suo amore per quest'uomo che non torna è costante, non ha cedimenti, lo costruisce giorno dopo giorno. Omero immagina Penelope, dopo il ritorno e la vittoria di Ulisse, che guarda l'orizzonte e si sente come un naufrago che ha ritrovato la sua spiaggia. Anche Penelope ha vissuto la sua Odissea».
Joy, suo padre, amava scardinare il mito di Ulisse. Odisseo era davvero così meschino?
«È furbo, bugiardo, un pessimo leader che lascia morire tutti i suoi uomini. La letteratura è piena di personaggi che non vorremmo mai frequentare nella vita. Ulisse è il prototipo dell'imbroglione convincente, al quale ti affidi e poi ti frega. È il simpatico mascalzone che ti inguaia. Ulisse è quello che ti porta via la ragazza perché è smart. Non lo vorremmo come amico, ma alla fine un po' lo ammiriamo. Mio padre lo detestava e non riusciva a comprendere perché mai qualcuno avesse scelto di dedicare un grande poema epico a un tale impostore».
Eppure continuiamo a perdonare tutto a Ulisse.
«Sì, e sa perché? La verità è che Ulisse è un eroe comico. È il modello per personaggi come Figaro o Falstaff, individui da cui stare attenti ma che ci fanno divertire. Il motivo per cui li amiamo è perché l'autore li ha posti in un quadro non tragico. Con Jago non potremmo fare altrettanto. L'Odissea è un poema comico perché il suo protagonista assoluto lo cogliamo nell'atto di fare di tutto, compreso cose molto discutibile per restare vivi, per restare a galla. E questo è un clown. Pensi a quanti riferimenti Ulisse fa al proprio stomaco.
Quando mai nella tragedia si fa riferimento al cibo? È il racconto su fino a che punto ci si può spingere, moralmente, per portare la pelle a casa. L'Iliade, al contrario, è tragica perché in fondo è una grande celebrazione della morte».
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