I borghesi di Haneke egoisti smarriti nella giungla di Calais

Un ottimo Trintignant non salva "Happy end", attesissimo a Cannes. Delude anche Lànthimos

I borghesi di Haneke egoisti smarriti nella giungla di Calais

Da Cannes

Il film più atteso a Cannes, Happy End, di Michael Haneke, Palma d'oro cinque anni fa al Festival e poi Oscar per il miglior film straniero, è anche il più deludente, come sempre accade quando ci si aspetta troppo. Gli ha nuociuto l'essere stato presentato come una riflessione su egoismi borghesi e miserie dell'emigrazione, con la «giungla di Calais», l'inferno franco-inglese dei profughi, a fare da specchio fra le due realtà. Ma la seconda sta alla prima, come un quadro moderno in un salotto stile impero: fa contrasto, ma non rispecchia lo spirito di chi lo abita.

Haneke mette in scena la cecità di una dinastia d'alto bordo condannata all'estinzione. L'anziano capofamiglia vorrebbe morire, il corpo è stanco e non risponde più ai comandi, la moglie morta dopo una lunga e invalidante malattia a cui proprio lui ha posto fine con un'eutanasia di cui non si pente, ma di cui sente comunque il peso. Il figlio maggiore ha ossessioni e perversioni sessuali, è alla seconda moglie, ha avuto da loro una figlia e un figlio, e non ama né l'una né l'altro, ha già una nuova amante a cui via internet racconta le sue voglie nascoste. La sorella cerca di essere il maschio che non c'è più, per stanchezza e per incapacità. Manda avanti l'azienda messa su dal padre, si fidanza, senza amore, ma per ottenere nuovi crediti, con un banchiere, ha un figlio debosciato...

Nell'insieme sono dei Buddenbrok del nostro tempo, e la «giungla di Calais» come contraltare è insieme troppo e troppo poco: una strizzata d'occhi alla attualità, un «non luogo» al cui posto ci potrebbero essere gli operai di una fabbrica, i contadini di una proprietà terriera, gli impiegati di una società...

La parte del leone, in Happy End la fa Jean-Louis Trintignant, il patriarca per il quale la conclusione felice del titolo dovrebbe coincidere con la propria morte. La voce, lo sguardo, le rughe, l'incertezza fisica e psicologica, l'apparente smarrirsi e il cupo quanto improvviso ritrovarsi, disegnano un formidabile ritratto di senilità che di per sé vale il premio per la migliore interpretazione maschile. Al suo confronto la pur sempre bravissima Isabelle Huppert sconta il dover far suo l'ennesimo ritratto di donna forte, dietro la maschera impenetrabile di chi non permette a niente e a nessuno di dire come si debba comportare.

Non sempre, naturalmente, bastano gli attori a salvare un film. Nel caso dell'altra pellicola in concorso, The killing of the sacred deer (L'uccisione del cervo sacro), di Yòrgos Lànthimos, da sola Nicole Kidman non riesce nell'impresa. Con The Lobster, due anni fa, qui al Festival il regista greco aveva preso il Premio della giuria, con un film tanto scombiccherato quanto presuntuoso.

Qui mette in scena una tragedia greca moderna, dove il sacrificio di Ifigenia per placare la contrarietà degli dèi, diventa la messa a morte di uno dei due figli di un brillante chirurgo, che uccise un paziente sotto i ferri, per estinguere la sete di giustizia del figlio della vittima. Nicole Kidman è la moglie del medico-omicida, e la scena in cui umilmente bacia i piedi del giovane angelo sterminatore, che esige la sua vendetta riscatta la bruttezza del film, e però non l'annulla.

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