La risposta più praticata da chi nell'ambiente letterario si sente chiedere se un romanzo che vende è davvero un capolavoro, la risposta che accontenta tutti e li mette pure a tacere, la risposta che permette di cavarsela con classe è: «Sarà il tempo a decidere». Il lettore non abituale che d'estate deve mettere in valigia un buon romanzo, oltre a servirsi del passaparola butta un occhio alle pile più alte in libreria e alle posizioni altrettanto alte in classifica: ci sono capolavori in vista in questa estate 2019? Potremmo cavarcela anche noi con la risposta di classe di cui sopra, se non fosse che qualche osservazione spicciola ci fa venire il dubbio: tra chi vende parecchio e occupa i primi posti ci sono l'immancabile premio Strega, l'immancabile primo volume di una saga d'esordio e nomi che mostrano i segni di un tempo già passato, come Camilleri, Ferrante, de Giovanni, Carofiglio, da anni circonfusi da un successo seriale, poi altre saghe e seriali, seriali e saghe, se si escludono Simenon e i successi di genere (spesso seriali). Difficile, insomma, per non dire impossibile, anche solo porsi la domanda di cui sopra a proposito del capolavoro.
E allora forse, in questa estate in cui un bestseller che abbia davvero qualcosa da dire potrebbe alleviare le tensioni provocate dal caldo, dalla cronaca politica nostrana e da quella internazionale, ha un senso andare indietro di almeno mezzo secolo. Spulciare che cosa accadeva mezzo secolo fa, non solo a proposito dell'allunaggio, di cui ci han ricordato proprio tutto, ma anche sull'atterraggio di vere opere d'arte narrativa nelle nostre anime assetate di bellezza, ardore, ricerca stilistica e carattere. Fu davvero un'estate da ricordare, quella del 1969, un'estate da scrittori memorabili: in classifica arrivarono titoli che hanno resistito per cinquant'anni, titoli per i quali si può, impavidi, gridare al capolavoro e che risultano allora consigli sensati di lettura o rilettura che possiamo dare per superare l'agosto contemporaneo.
Partiamo da chi fece il botto per la vita: Mario Puzo, morto venti anni esatti fa, proprio d'estate, e il suo Padrino (Corbaccio). Uno dei dieci romanzi americani più venduti al mondo, un titolo che negli anni che seguirono l'uscita del 69 avrebbe superato i 30 milioni di copie: «Avevo 45 anni, un debito di ventimila dollari coi parenti, le finanziarie, le banche e una varietà assortita di bookmaker e usurai. Era tempo di crescere e vendere», ebbe modo di ricordare Puzo a proposito della spinta a fare soldi che lo tenne chiuso per tre anni nel sottoscala per inventarsi la storia di mafia che rese Don Corleone un eroe di fama mondiale. Era al verde con moglie e cinque figli da mantenere, ma non scelse di cavalcare l'onda facile: gli Stati Uniti erano concentrati sulla guerra in Vietnam, l'Europa pensava a fare la rivoluzione, quelli potevano essere i temi su cui costruire un plot a tavolino. Invece Puzo, anche se mirava a vendere per sua stessa dichiarazione, si mise all'opera su tradimento, sesso, violenza e vendetta in una famiglia. Che quella famiglia fosse mafiosa, che distruzione e morte fossero le scelte estreme che i suoi personaggi dovevano fronteggiare fu la cifra vincente, ma i lettori furono conquistati soprattutto dallo spirito insieme mitologico e «popolare» con cui Puzo - uno dei dodici figli di un immigrato napoletano analfabeta cresciuti a Hell's Kitchen da una madre abbandonata dal marito, vale la pena ricordarlo - affrontò il tema, conquistando l'immaginario collettivo. Compreso quello della mafia, di cui Puzo sapeva quel pochissimo che aveva assorbito da vecchie conoscenze del quartiere da cui si teneva alla larga: fu semmai dal suo romanzo che picciotti e boss «rubarono» frasi e tormentoni che poi entrarono nel lessico mafioso.
Il Padrino era poco più che un esordio: Puzo aveva già pubblicato dei romanzi, ma non se li era filati nessuno. Più o meno la stessa sorte toccò a un altro dei capolavori battezzati nel 1969, Il lamento di Portnoy di Philip Roth (Einaudi): arrivava dopo sei racconti e due romanzi interessanti magari per certa critica, ma nessuna svolta. Portnoy invece cambiò per sempre il corso della storia narrativa di Roth e segnò un altro punto a favore di quell'estate di mezzo secolo fa. Certo, rispetto al Padrino, tutt'altra storia, tutt'altro stile, tutt'altro botto: il monologo ossessivo del paziente Alexander Portnoy, condito da fantasie masturbatorie e ogni altro genere di nevrosi sessuali, non fu un intrigo in cui immedesimarsi, ma un irreprimibile scandalo. E dunque un successo esplosivo. Per dirla con le parole di Dick Schaap, il giornalista sportivo che lo recensì per il Nyt: «Se Philip Roth ha creato una madre ebrea da acidità di stomaco, Mario Puzo ha creato un padre siciliano che vi farà tornare i brividi ogni volta che passeggerete in Mulberry Street. Quel che Roth ha fatto per la masturbazione, Puzo lo ha fatto per l'omicidio».
Se non bastasse, il 1969 fu l'estate in cui sotto gli ombrelloni comparve un romanzo la cui lettura venne descritta dalla stampa come «Il dubbio piacere di assistere a un'apocalisse del 20° secolo»: Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut (Feltrinelli). Nell'introduzione a questa storia di fatti, finzione, alieni e disturbi post-traumatici incentrati su un macello in disuso durante i pesanti bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Vonnegut scriveva, sapendo di sbagliare: «Non c'è nulla di intelligente da dire a proposito di un massacro». Naturalmente in questo caso l'anno era quello giusto per tornare a parlare di guerra e Vonnegut, ex soldato di fanteria dell'Us Army, ci provò più che da antimilitarista dichiarato, da provocatore professionista: il risultato fu che il libro fu bandito da un bel numero di biblioteche americane almeno fino al 2011 e addirittura dato alle fiamme nella scuola di Drake, North Dakota, nel 1973. Al preside di quella scuola Vonnegut scrisse una lettera così umile e rispettosa che la parola «capolavoro» a proposito del suo romanzo sembra confermata proprio da quel falò illiberale.
Che cosa ci manca perché nell'estate del 2020 non ci mettiamo a rimpiangere le uscite letterarie del 1970? Fatto salvo che sarà comunque il tempo a giudicare, gli editor potrebbero provare setacciare i manoscritti alla ricerca di un racconto di sé che magari ecceda nella nevrosi, ma stia lontano dall'ombelico; una saga familiare che conservi una rigorosa ricerca di linguaggio originale e dialoghi eccellenti a dispetto della serialità; un romanzo politico che non sfoci nel romanzo partitico o nostalgico, ma si regga su un conflitto universalmente valido. Che ci vuole? In fondo, non chiediamo mica la luna.
P.s.
Nel 1969 debuttava anche, dopo alcune prove fallite sotto pseudonimo, un giovane studente di medicina di Harvard, con Andromeda, un bestseller che gli valse 250mila dollari di diritti cinematografici in pochi mesi. Si chiamava Michael Crichton: ci accontenteremmo anche di un solo altro come lui, in caso i tre consigli precedenti vi siano sembrati troppo «letterari».
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