Tra chi si dedica alla nobile arte della critica d'arte, non ce n'è uno che non abbia avuto, almeno una volta nella vita, la tentazione di formare il suo gruppo di prescelti e benemeriti. Un tempo questa abitudine ha portato davvero fortuna, a cominciare dall'Arte Povera di Germano Celant che, esattamente a mezzo secolo di distanza, ancora detta i ritmi del mercato. Poi fu la volta del Transavanguardia, i cinque pittori messi a regime da ABO, che con i loro quadri citazionisti risultarono tra i migliori esempi del made in Italy. Dopo è andata meno bene e per via della globalizzazione i curatori si sono messi a cercare in ogni parte del mondo tranne che a casa propria. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: gli artisti italiani oggi non li invita più nessuno alle mostre e le ragioni sono tante, ma la più stupida è il privilegiare il fascino dell'esotismo.
Se non ai critici, tocca allora a intellettuali disorganici come Camillo Langone praticare ed eseguire quell'attività di cercatore di talenti che fino a non molto tempo fa toccava a professionisti come me. Langone lo conosco da vent'anni e ancora non ho capito bene che cosa fa, a parte essere un giornalista (anche per questo quotidiano) del tutto disinteressato alla cronaca. Tra messe e vini, stoffe e cucine, ha trovato modo di registrare lo stato di salute della pittura italiana di oggi, prevalentemente figurativa, di bella mano e buono stile, che ha messo a repertorio nell'utilissimo www.eccellentipittori.it. Sarà pure affascinato dal retrò, il buon Camillo, però è ben capace di utilizzare i social proprio come un contemporaneo «sul pezzo».
Con la solita aria sprezzante lo incontro a Torino - «dove frequento solo te, Johnson Righeira e Giuseppe Culicchia», mi dice - perché si è appena aperta la Chiono Reisnova Art Gallery in pieno centro, via Giolitti 51. Le titolari sono madre, di origine ceca, e figlia, di professione avvocato (continuo a usare il maschile, anche per contrastare l'unico provvedimento di questa amministrazione che ha vituperato la lingua italiana con neologismi cacofonici tipo sindaca o assessora), e si dicono entusiaste della pittura figurativa giovane. Spero vada loro bene perché Torino è città difficile per chi usa i pennelli.
L'esordio, firmato appunto Langone, non è segnato da un gruppo né da un movimento, ma dalla registrazione di un dato di fatto. Ovvero che in Sardegna, dove non è mai stato - «perché viaggiare quando esistono i quadri?» -, i pittori hanno una sensibilità comune nuragica, primitiva, grottarola e isolazionista che il nostro non tarda a definire gotica. Gotico sardo è dunque il titolo di questa collettiva (fino al 21 ottobre) con sette artisti recenti, nati tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli '80 che dipingono immagini toste, barbariche, aspre, ciascuno con stili e linguaggi diversi pur non essendo difficile trovare in loro un certo comune denominatore che li fa stare insieme. Alcuni li conosco bene: Silvia Argiolas, una darkettona che distrugge l'immaginario femminile così come passa nella pubblicità trasformandolo in qualcosa di torbido e malato; Giuliano Sale, ottimo il suo riscontro all'estero, ora più vicino a un'astrazione che ricorda il clima della California; Giovanni Manunta Pastorello, il più vecchio (1967) che nei nuovi quadri usa la scrittura un po' come faceva l'ultimo straordinario Mattia Moreni.
Antonio Bardino, Nicola Caredda, Silvia Idili e Vincenzo Pattusi sono invece meno noti e transitati sulla piattaforma web di Langone. Menzione d'onore la merita proprio Pattusi, il più autenticamente gotico, che continua a lavorare a Siniscola (Nuoro), mentre i colleghi si sono dovuti trasferire a Milano a cercare fortuna e palcoscenici più adatti all'arte.
Giusta l'osservazione di Langone, convinto che solo il regionalismo può salvare la nostra creatività, visto che la nazione risulta pressoché cancellata: in termini percentuali la Sardegna ha pittori
più numerosi e interessanti che l'Emilia, la Lombardia, il Piemonte. Sarà certo merito di questo modo così oscuro e controcorrente con cui cercano, i pittori, di declinare nell'arte di oggi il mistero della loro tradizione.
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