«Una suggestione che potrebbe avere presa su molte persone, e molti studenti, è l'idea che la cultura tecnologica si sia ritagliata uno spazio maggiore nel panorama mentale del presente, e che possa rappresentare una alternativa a un modello culturale, che è quello presentato tradizionalmente dalla scuola, basato sulla interazione fra cultura umanistica e scientifica». Lorenzo Tomasin insegna Filologia romanza e Storia della lingua italiana all'Università di Losanna; è anche nella giuria del Premio Campiello e, di recente, in occasione della proclamazione della cinquina finalista, ha pronunciato un discorso ben poco accomodante, in cui ha denunciato la crisi del romanzo italiano. Alla vigilia degli esami di maturità, Tomasin riflette sul rapporto fra cultura tecnologica e cultura umanistica; un rapporto al centro del suo saggio L'impronta digitale (Carocci, pagg. 144, euro 12), e a proposito del quale la sua posizione è chiara: «Sono preoccupato per l'invadenza dell'approccio tecnologico nel contesto culturale. Ma non perché la tecnologia debba essere rifiutata, o esclusa dal percorso di studi».
Professor Tomasin, perché è preoccupato quindi?
«Per la confusione, che avviene spesso, fra cultura scientifica e tecnologica. Sono considerate una specie di aggregato unico, e opposto al blocco umanistico. Uno schema improprio, pericoloso e molto diffuso».
Perché improprio?
«Anche la cultura umanistica condivide aspetti di quella scientifica, e ha una dignità scientifica. Un buon lettore, filologo, linguista o umanista non può che avere una mentalità scientifica. Non c'è opposizione, sono complementari».
E perché pericoloso?
«Perché la scuola serve a dare una impostazione scientifica, che non significa pratica o di applicazione concreta immediata. La pratica viene dopo. Legata a questa tendenza, c'è quella della scuola a preoccuparsi di fornire competenze, anziché conoscenze, cioè ad anteporre le nozioni pratiche e spendibili. Ma, se l'obiettivo della scuola è questo, siamo fuori strada».
L'obiettivo qual è?
«In riferimento all'esame di maturità, mostrare appunto una maturità intellettuale e civile, un livello minimo di capacità di guardarsi intorno e capire la realtà, senza essere schiacciati da pregiudizi e idee preconfezionate».
Più in generale?
«Preparasi a quella grande sfida che Erwin Panofsky ha definito così: L'umanista è colui che nega l'autorità ma rispetta la tradizione. Solo questo giustificherebbe cinque anni di latino, greco e altre materie considerate inutili...».
Le lingue classiche...
«Sono tutt'altro che morte, il latino innanzitutto. E poi, da linguista, dico che non c'è mai una lingua di troppo».
Secondo lei, la preparazione media degli studenti come è cambiata negli ultimi venti-trent'anni?
«Quando si fanno dei test, ogni volta si hanno brutte sorprese. Sembra che sappiano sempre di meno ma, forse, dipende dal fatto che acquisiscono e organizzano le conoscenze in modo diverso. Quello che conta, però, non è la quantità di nozioni nella testa, bensì la capacità di ottenerle in un certo modo».
In che senso?
«Sono preoccupato che, a fronte di nuovi strumenti, qualcuno stia perdendo quelli vecchi. Diciamo che oggi siamo tutti bravissimi a navigare: ma non è che qualcuno ha disimparato a nuotare? E ancora: che senso ha navigare, se non sai nuotare?, che cosa rischi?».
Sono queste idee ad averla spinta a un giudizio così critico sul romanzo italiano?
«In queste settimane mi hanno contattato in molti, anche scrittori, mostrando frustrazione e amarezza».
Per che cosa? Per lo stato della letteratura italiana?
«Mi hanno detto: stai dicendo che siamo tutti incapaci, ma il tuo è un giudizio complessivo negativo, che non discrimina abbastanza. Qualcuno ha l'impressione di essere stato preso nel mucchio, si ritiene diverso».
Che cosa risponde?
«Che, se si chiama critica, serve a criticare. È suo compito esercitare una funzione, anche fastidiosa, di invito a una presa di coscienza. Se qualcuno si sente indenne da queste critiche, vada pure avanti a fare quello che fa».
Magari lei, da critico e da linguista, tende a vedere solo i problemi.
«Eh, ma a che cosa servono, altrimenti, gli umanisti, questi inutili letterati?»
Quei rischi che corre la cultura, li corre anche la letteratura?
«In questa industrializzazione massiva della letteratura sembra che i romanzi siano prodotti a getto continuo, come oggetti di consumo simili a tutti gli altri».
I libri di consumo sono sempre esistiti.
«Sì, però le proporzioni stanno mutando. C'è una alluvione quantitativa. E, se la letteratura di bassa qualità è sempre esistita, una delle funzioni dei critici è sempre stata di mettere in guardia da essa. Se un romanzo è scritto male, è scritto male. Ma c'è di peggio».
Che cosa c'è di peggio?
«A volte i romanzi sembrano scritti dagli editor: sono addomesticati per piacere a un certo pubblico che l'editor ha deciso di raggiungere. Un fenomeno di appiattimento preoccupante».
Solo in Italia?
«È diffuso ovunque. Uno specifico dell'Italia è che sia un Paese in crisi, per molte ragioni, e che stenta a trovare un suo ruolo e una direzione».
La crisi si riflette nella letteratura?
«Non voglio dire che sia
automatico, per qualsiasi Paese. Ma è evidente che la crisi riguarda tanti aspetti della società italiana e non è strano che riguardi anche la letteratura che forse, da questo punto di vista, ha un po' perso la bussola».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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