Gli incubi scientifici di Conan Doyle e il lucido terrore di Poe

Lo scozzese oltre il razionalismo di Sherlock Holmes. E l'acume analitico dell'americano

Gli incubi scientifici di Conan Doyle e il lucido terrore di Poe

In letteratura, come nel resto della vita, più che essere come si è, si è come gli altri ci giudicano. Il «foro interiore» è un forellino, un buchetto, un anfratto, un ripostiglio, un rifugio, non un tribunale che sentenzia senza appello. Le sentenze, infatti, vengono da fuori. In letteratura, oltretutto, gli altri sono i lettori, i critici e gli storici: clienti difficilissimi, perché prediligono (o addirittura pretendono) categorie e catalogazioni semplici, nette, inequivocabili. Se poi l'autore passa per essere «di genere», ha già un piede nella fossa della morte civile, e per tirarlo fuori da lì occorre quasi un miracolo.

A proposito di bare e sepolture anticipate (La sepoltura prematura è il titolo di un suo racconto), dire Edgar Allan Poe, per l'universo mondo equivale a dire «terrore». È verissimo, ovviamente, i suoi racconti e il suo unico romanzo, il Gordon Pym, mettono paura, lo sanno tutti. Ma perché? Perché sotto la forma della follia, dell'inatteso, dell'irrazionale c'è una sostanza molto lucida, molto razionale. Se il cuore di Poe è chiaramente incline alla tetraggine figlia dello spleen e al pessimismo cimiteriale propagato dal romanticismo (entrambi prodotti «made in Europe» ed esportati negli Stati Uniti), la sua forma mentis è convintamente scientifica, come emerge anche da vari passi del suo epistolario (si veda il volume delle Lettere edito dal Saggiatore nel 2017). Per comprendere i «due» Poe è utile il volume che propone Tutte le storie di fantascienza (Fanucci, pagg. 312, euro 12) del bostoniano, dove il termine «fantascienza» è, allo stesso tempo, improprio e proprio. È improprio perché ai tempi di Poe (1809-49) il genere non era ancora stato codificato come tale, ma è anche proprio, anzi opportuno, perché si rivolge oggi al comune sentire in tema di science-fiction.

In Conversazione tra Eiros e Charmion, ad esempio, lo scenario di cui parlano i due dialoganti nel post mortem è apocalittico, visto che si tratta della distruzione della Terra (ed ecco il terrore), ma supportato dalle cognizioni scientifiche in merito alla collisione con una cometa (ed ecco la razionalità). In La milleduesima notte di Shahrazad il gioco narrativo consiste nell'infarcire il mirabolante e perturbante racconto «ritrovato» della figlia del visir con riferimenti impliciti a scoperte o invenzioni più o meno recenti, come la pila voltaica, la macchina calcolatrice di Babbage o l'automa di Maelzel che giocava a scacchi. E in Il potere delle parole (un altro dialogo, e ancora fra due ex morti) la «fantascienza» si sporge oltre i confini del fisico per spiare la filosofia, spingendosi fino al silenzio siderale, e da brividi, della metafisica. «Non nella conoscenza sta la felicità, ma nell'acquisizione della conoscenza! Nell'eterno conoscere, siamo eternamente beati; ma conoscere tutto, sarebbe la maledizione di un nemico», dice Agathos a Oinos. E poi continua, con un tono che ricorda l'androide Roy Batty di Blade Runner: «Vieni! Lasceremo a sinistra la sonora armonia delle Pleiadi e ci slanceremo fuori dal trono nei campi stellati oltre Orione dove, quali mammole e viole, per la serenità del cuore, si stendono aiuole di triplici e tricolori soli». Inoltre la «doppiezza» di Poe è sostenuta, in molti dei sedici racconti qui riuniti, da una patina para-scientifica: il mesmerismo, che era una delle sue fisse, oltre che un trucco letterario efficacissimo quando, come in La verità sulla vicenda del signor Valdemar, si desideri oscillare fra la vita e la morte.

Tanto Edgar Allan Poe è il campione del «terrore», quanto Arthur Conan Doyle (1859-1930), il quale prima di conoscere il successo da scrittore era medico, evoca la precisione chirurgica del metodo deduttivo, il farmaco infallibile della prova che inchioda il colpevole e guarisce la società dal virus che questi diffonde. Per il suo Sherlock Holmes, che egli tentò di eliminare con un delitto non perfetto, smascherato dall'insurrezione popolare che lo costrinse a farlo rinascere, tutto è «elementare», dall'alto di un rigore che riesce sempre a collegare l'effetto alla sua causa e la causa al suo effetto. Ma anche a Conan Doyle sono stati cuciti addosso abiti troppo stretti. Di cui lui riuscì a spogliarsi con vagonate di racconti e romanzi dal tono storico e avventuroso. E che cosa c'è, nella sterminata produzione di sir Arthur, di più anti-sherlockiano di Il mondo perduto? Un giornalista intraprendente, uno scienziato burbero e il di lui sibillino rivale, un ruvido cacciatore. A loro tocca indagare su un caso molto più grande di qualsiasi delitto compiuto a Londra o nella campagna inglese: la scoperta, appunto, di un mondo perduto. Il romanzo del 1912 (ora riproposto da Fanucci, pagg.

279, euro 10) è magistrale nel mettere in scena il duello fra i rappresentanti della scienza ufficiale e paludata, ancora figlia dell'epoca vittoriana, e i paladini di una scienza nuova, intrepida, curiosa, moderna. I Jurassic Park e gli Indiana Jones sono lì dietro l'angolo. Mentre Baker Street è lontana come una galassia di cui non si ipotizza nemmeno l'esistenza.

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