Cultura e Spettacoli

Il giornalista che si ama di più. Tanti like e zero autocoscienza

Con enorme distacco sugli altri, Scanzi è forse il personaggio mediatico più insopportabile da quando Marshall McLuhan ha ribaltato l'interpretazione degli effetti nefasti - prodotti dalla comunicazione sulla società

Il giornalista che si ama di più. Tanti like e zero autocoscienza

Non si è mai capito se Andrea Scanzi sia diventato così popolare perché particolarmente antipatico, o sia diventato antipatico perché a un certo punto è diventato troppo popolare. La frase, riportata sul suo sito personale, «Da aprile 2020 sono il giornalista più seguito d'Italia sui social, con enorme distacco sugli altri» fa propendere, in effetti, per la seconda.

Con enorme distacco sugli altri, Scanzi è forse il personaggio mediatico più insopportabile da quando Marshall McLuhan ha ribaltato l'interpretazione degli effetti nefasti - prodotti dalla comunicazione sulla società. «Il medium è il messaggio». Ma se non hai abbastanza messaggi, allora meglio che abbondi coi media. E in effetti Scanzi forte della massima aurea secondo cui «Il giornalismo è solo l'arte di riempire uno spazio bianco» ha nel corso della sua peraltro invidiabile carriera riempito tutti gli spazi mediatici disponibili. È giornalista (pubblicista) per la carta stampata, per la tv, per il web e per la radio, è scrittore, pamphlettista, opinionista, critico musicale, conduttore, attore, uomo di teatro, deejay, bestsellerista... Le voce «Andrea Scanzi» di Wikipedia è più estesa della lunghezza media dei suoi articoli. Morale: il giornalismo è un mestiere nel quale si passa la metà del tempo a parlare di ciò che non si conosce e l'altra metà a cercare il mezzo più adatto per dirlo.

«Le mie dirette Facebook ScanziLive, durante il lockdown, hanno superato i 100mila spettatori e i 3 milioni di visualizzazioni totali», ripete Scanzi da mesi. E non è neppure l'effetto peggiore della pandemia.

Ma perché gli italiani amano così tanto Andrea Scanzi? Perché lo seguono? Lo guardano? Lo leggono? Dubbio: ma se chi applaude Scanzi è non può non esserlo il popolo della sinistra, allora quella storia che la sinistra sia più colta, raffinata e intellettualmente elegante della destra magari - è una buffonata. No?

Evidentemente ottimo giornalista ed eccellente comunicatore per numero di fan e capacità di impattare la pancia pelosa del Paese, solo di poco inferiore a Matteo Salvini, col quale condivide la passione per la politica, l'amore per i formaggi grassi e la rara capacità di sbagliare sempre abbigliamento Scanzi possiede innegabilmente tutte le virtù dell'uomo di successo. La fortuna, la capacità di adattarsi ai tempi e l'assoluta mancanza di autocoscienza. Altrimenti, dopo l'imbarazzante gaffe sulla vaccinazione anticovid effettuata saltando le lista di attesa, avrebbe sentito con forza l'imperativo morale di ritirarsi dalla scena pubblica, come imporrebbe una dignità che non si misurasse coi like su Facebook. E invece l'ha cavalcata. Del resto, solo pochi giorni dopo la sua più intemerata tra le dichiarazioni («Il Covid è solo un banalissimo raffreddore»), Scanzi consegnava alle stampe con uno strepitoso successo di pubblico che bene spiega l'invidia biliosa dei detrattori ma anche misura il gusto dei lettori il suo bestseller, il cui titolo è direttamente proporzionale alla ricercatezza della prosa: I cazzari del virus. Come lasciò scritto Giosue Carducci parlando dei suoi (di Scanzi) connazionali, «Basterebbe Arezzo a fare la gloria d'Italia». E anche la fortuna degli editori.

Scanzi, niente da dire, ha un curriculum impressionante. È aretino, come Francesco Petrarca, col quale condivide la fama nazionale, e come Gianni Boncompagni, cui l'accomuna il pubblico di riferimento. I teenager. Ha una laurea in Lettere conseguita all'Università di Siena con una tesi sui cantautori italiani, cadendo nel più pervicace equivoco del post-modernismo (in realtà una solenne stronzata) e cioè che i cantautori sono «un po' poeti». Ha scritto per numerose e prestigiose testate, che coprono l'intero arco politico e culturale del Paese, da Tennis Magazine a Donna moderna. Poi è passato al Fatto quotidiano dove come attesta lui stesso «si occupa di diversi argomenti». E si vede. Qualcuno dice che se Scanzi dovesse parlare solo di ciò che sa, dovrebbe stare sempre zitto. Ma sono cattiverie. Comunque. Fin dagli inizi ha avuto una predilezione per la critica musicale. Sembra che l'input gliel'abbia offerto la lettura della celebre frase di Frank Zappa: «Buona parte del giornalismo rock è fatta da gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere». Per lui, perfetto.

Ma la carta stampata è solo uno dei mondi di Scanzi. Ha fatto teatro, Gaber soprattutto (quando gli hanno fatto il nome la prima volta, ha chiesto: «Quanti follower ha?»). Televisione: come conduttore, commentatore e ospite fisso, sempre richiestissimo. Ha fatto cinema: attore ad esempio nel film di Maccio Capatonda Italiano medio, a riprova del suo pubblico di riferimento. E ha scritto innumerevoli libri di sport, musica, politica, vini... - tutti di grande successo, a scorno di parecchi invidiosi colleghi. Abbiamo contato 25 titoli in vent'anni. Che, all'anno, fa 1,2. Poco sopra la media delle stellette di valutazione su Amazon. Non si capisce, poi, se Scanzi scriva libri per il piacere di scrivere, per il piacere di vendere o per il piacere di rinfacciare le settimane primo in classifica a Pietro Senaldi.

«#ScanziLive la facciamo qua!». Olè! Si chiama giornalismo spettacolo.

Figlio di un diffuso provincialismo linguistico da anni '90, padre di un giornalismo che vive tutto su Facebook e niente su carta, Scanzi è ovunque, un rumore di fondo amico, un persuasore acustico, anestetizzante, indipendentemente da quello che dice. È anche per questo, in fondo, che piace. Come un tempo Mike Bongiorno, o Pippo Baudo. E oggi Severgnini. Se li vedi così tanto, in qualsiasi luogo, a qualsiasi ora, a dire qualsiasi cosa ti ci abitui. È come il cellulare: lo guardi non perché hai bisogno qualcosa, ma perché ce l'hai in mano.

Caregiver di se stesso, Scanzi è l'incubo di Renzi, ha l'incubo di Salvini, e in fondo disturba parecchio anche le notti di tutti noi. Politicamente, capisce poco. Ideologicamente è vago. Dialetticamente è fermo a luoghi comuni retorici come «Se Renzi è leale, Cicciolina è vergine» o come «Salvini ha studiato all'università della Birra». Cose così. Perfetto per i talk. Sottopancia: «Ehi, Sono me!».

Egocentrico, egolatrico, egotista, logorroico, Scanzi da toscano con il culto della lingua - ha fatto dell'eleganza della frase, la qualità della scrittura e l'originalità dello stile la propria etichetta. Esempio, l'immortale prosa: «Questa non è una malattia mortale porca di una puttana troia ladra. Vi viene un piccolo cazzo di raffreddore. Non vi viene una sega. È solo una cazzo di influenza. State diventando coglioni!». Come sempre, dal suo pubblico, ha avuto molti like.

Per piacere, Scanzi piace da matti. Alle mamme, alle figlie, alle nonne, agli Lgbt moltissimo - sarà per quel modo che ha di sedersi - e a Lilli Gruber, al popolo dei social, un po' meno ai suoi colleghi (strano, è più simpatico a noi del Giornale che ai suoi del Fatto), e soprattutto ai giovani. Forse perché è rimasto, anche nel look, un liceale. Come quando sognava di diventare un grande giornalista, e già gli stava stretto il mondo, figuriamoci Arezzo, città che va infine ricordata almeno per il tono sprezzante con cui Guido del Duca, illustrando il corso dell'Arno, designa i suoi abitanti «come botoli.../ ringhiosi». È nel canto XV del Purgatorio.

Almeno questo, non lo ha scritto Scanzi.

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