Cultura e Spettacoli

"Ironia, rigore, estetica. I miei anni meravigliosi con quel gran viveur geniale di Rossini"

Il regista festeggia con una serata speciale quarant'anni al Festival lirico di Pesaro

"Ironia, rigore, estetica. I miei anni meravigliosi con quel gran viveur geniale di Rossini"

Come un gioiello, incastonato in un diadema. Quarant'anni di prodigiosa creatività, al centro di settant'anni d'impareggiabile carriera. Questo il significato di Tra rondò e tournedos: il galà celebrativo con cui - il prossimo 21 agosto, a Pesaro - si festeggeranno gli incredibili quattro decenni di presenza al Rossini Opera Festival (Rof) del più celebrato regista rossiniano del mondo: Pier Luigi Pizzi. Occasione assolutamente unica per il festeggiato (serate simili solitamente si dedicano ai cantanti; non ai registi) e per la serata in sé stessa: sorta di antologia del meglio creato, in ben tredici produzioni, dal genio immaginativo del novantenne maestro, basilare figura di riferimento nella storia del più prestigioso festival lirico nazionale.

Come si spiegano ben quarant'anni al servizio della stessa rassegna, dedicata ai capolavori spesso dimenticati, talvolta nascosti - di un solo autore?

«Prediligo Rossini perché lo ritengo un benefattore dell'umanità. Ci diverte, ci commuove, ci sorprende sempre; perfino quando si ripete non è mai uguale a sé stesso, perché trasforma il buffo in malinconico, l'amaro in ironico. Un genio musicale che amava vivere. Per questo il titolo Tra rondò e tournedos allude anche alla simpatia del bon viveur che, al rifiuto d'uno chef parigino di cucinargli un filetto secondo la sue indicazioni, lo invitò a tourner le dos, a girare le spalle, e dettò la ricetta dei Tournedos alla Rossini: filetto in salsa di Madera, foie gras fresco del Perigord e abbondanti sfoglie di tartufo nero di Acqualagna».

Questa serata non sarà, però, un semplice concerto celebrativo.

«No: saranno frammenti di spettacolo, tratti da ciascuno dei tredici che ho creato per il Rof, dal Tancredi dell'82 al Moise et Pharaon del 2021, con brani affidati a nove cantanti fra cui Eleonora Buratto, Vasilisa Berzhanskaya, Dmitry Korchak, Giorgio Caoduro, diretti da Diego Matheuz e con scenografie e costumi originali».

Vogliamo provare a fare un bilancio di tanti successi, spesso anche pietre miliari nella riscoperta di Rossini?

«Facciamolo; anche io se non amo i bilanci. Potrei anche stavolta ripetere ciò che ho recentemente detto ricevendo due premi alla carriera, l'Abbiati - il mio ottavo - e il Flaiano. Questi omaggi fanno piacere, purché non li si intenda come una sorta di benservito, ma incentivi a lavorare con la passione di sempre».

Lo spettacolo che ha amato di più e quello sul quale ha avuto un ripensamento?

«Sono legatissimo al primo dei miei tre Tancredi, quello storico dell'82, eseguito con doppio finale tragico e lieto, con Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani, concepito in un indimenticabile fervore d'entusiasmo generale. Amo molto anche il Barbiere di Siviglia del 2018: ci sono arrivato ad 88 anni, ma nella giusta pienezza della maturità. Ho qualche pentimento, invece, per il secondo Tancredi, del '91, in cui mi feci prendere un po' la mano dal vasto spazio del Palasport a scapito dell'approfondimento psicologico. Privilegiai più il contenitore del contenuto, insomma. E infatti il terzo Tancredi, nel '99, mutò pelle».

Le immagini visive dei suoi spettacoli che più rimangono nella memoria?

«Nessuna in particolare: sono troppe. Ma condivido quelle che mi suggerisce lei: Samuel Ramey nel Maometto II portato in trionfo sul suo scudo, e Cecilia Gasdia, nello stesso spettacolo, coraggiosamente riversa sulle scale. La foresta di abeti in cui ambientai il Guillaume Tell del '95, o la villetta novecentesca a due piani, completa di campo da tennis e piscina, in cui nel 2002 trasferii la Pietra del paragone».

Più difficile o più stimolante doversi confrontare con titoli sprovvisti di una tradizione interpretativa?

«Meravigliosamente stimolante. Anche perché si trattava, ogni volta, di creare mondi differenti si pensi alla Venezia rinascimentale di Otello, così diversa da quella di Bianca e Falliero, ispirata al Veronese - anche se comunque riconducibili al mio stile. Che credo di poter riassumere in tre parole: estetica, rigore, ironia».

A quali compagni di viaggio, lungo questo quarantennale percorso al Rof, pensa oggi con gratitudine?

«Innanzitutto a Gianfranco Mariotti, che il Rof lo ha creato, ad Alberto Zedda, motore della Rossini renaissance, a Gigi Ferrari ed Ernesto Palacio. Poi ad artisti ineguagliabili come la Horne, la Valentini-Terrani, la Ricciarelli, la Devia, la Dessì, Chris Merrit, Samuel Ramey, Rockwell Blake. E potrei continuare a lungo».

L'ultima domanda è anche la più inevitabile, maestro. E per il futuro?

«Preparo nuove produzioni di Orfeo ed Euridice e Macbeth. Nella prosa una nuova Venexiana, oltre alle tournée di Pour un oui ou pour un non, di Nathalie Sarraute, con Orsini e Branciaroli, e de La dolce ala della giovinezza di Williams, con Elena Sofia Ricci.

Tutto questo se Dio mi assiste, naturalmente».

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