John Le Carré si racconta: "La Talpa è il meglio di me"

Lo scrittore incontra i fan a Londra: "George Smiley sono io: essere una spia non è diverso da scrivere"

John Le Carré si racconta: "La Talpa è il meglio di me"

L' ingresso sul palco ricorda il suo personaggio più celebre, George Smiley. Il passo è lento ma fermo, saluta con un timido inchino. Davanti a sé, 2.500 persone che hanno pagato biglietti fino a 100 sterline per quella che potrebbe essere la sua ultima apparizione pubblica. Non indugia in convenevoli John Le Carré. La serata-evento al Southbank Centre di Londra, trasmessa in diretta in 276 cinema sparsi nel mondo, è parte della campagna promozionale per il suo ultimo libro, A Legacy of Spies. Tra un mese compirà 86 anni, ma la scrittura resta una necessità anti-anagrafica. «Continuerò a scrivere finché potrò, anche senza pubblicare. Fa parte della mia quotidianità. Quando termino un libro, comincio subito quello successivo». Attraverso un processo creativo identico a se stesso ormai da cinque decenni. «Inizia tutto dai due o tre personaggi che ho in testa. Posso avere un'idea generale, mentre la trama nel suo dettaglio emerge solo durante la scrittura. Ma fin da subito conosco l'immagine finale che voglio raggiungere con il libro, e la ricerco attraverso la storia». Una routine giornaliera cominciata negli anni '60, quando David John Moore Cornwell - il suo vero nome - era ancora un agente segreto. Nato a Poole, nel Dorset, subito dopo la Seconda guerra mondiale si trasferisce a Berna per studiare il tedesco. Qualche anno in Svizzera, dove viene avvicinato per la prima volta dall'intelligence di Sua maestà, quindi la laurea ad Oxford. Gli anni successivi - trascorsi a insegnare lingue straniere a Eton - sono una copertura, perché nel frattempo è stato reclutato nel controspionaggio. Che abbandona nel 1964, per diventare uno scrittore a tempo pieno, dopo il successo de La spia che venne dal freddo.

«Non so perché sono diventato una spia. Magari per assaporare quell'infanzia felice che non ho avuto». Suo padre Ronnie era un truffatore di professione, bugiardo compulsivo, più volte incarcerato, forse anche agente della Stasi. «Tanti indizi mi fanno credere che lo fosse, ma per me resterà sempre un mistero. Di certo è stato lui ad avvicinarmi ai servizi segreti, conosceva bene quel mondo». Frequentato con disinvoltura dai personaggi usciti dalla penna di Le Carré nei suoi 24 libri. A cominciare dall'agente Smiley, nato con il primo romanzo, Chiamata per il morto. E ritornato ora - a sorpresa - dopo un'assenza lunga quasi 30 anni. «È il meglio di me, ammiro il suo senso del dovere, il suo impegno e la responsabilità che sente verso il prossimo. Siamo cresciuti assieme, io e Smiley, era presente nella prima pagina del mio primo romanzo. Ma quando è diventato troppo famoso, l'ho accantonato».

Protagonista di otto libri, Smiley è l'antitesi di James Bond, un anti-eroe basso, grasso, dalla spiccata incapacità alla seduzione. Ma abile, grazie alla straordinaria intelligenza, a muoversi tra i due blocchi contrapposti durante la guerra fredda. «Non sono un vecchio con il vizio di rimpiangere il passato. Ma ho avuto la fortuna di vivere lo spionaggio non violento. Oggi è tutto cambiato, il mondo è più inquieto di prima, è più difficile distinguere i buoni dai cattivi». Una confusione che Le Carré fa risalire alla caduta del Muro di Berlino, «un'occasione persa per riequilibrare la geo-politica mondiale». «Al posto di sostenere il processo democratico nei paesi dell'Est, non si è fatto altro che umiliare Mosca. Con i risultati attuali, sotto gli occhi di tutti. Il maggiore rischio oggi non è una nuova guerra fredda, ma il fattore imprevedibilità. Come la Corea del Nord, e per certi versi anche l'Isis, che sfugge alle logiche d'ingaggio di un tempo. Minacce terribili, perché ogni sforzo, militare o diplomatico che sia, rischia di risultare inutile». Le Carrè spara anche a zero su Trump, paragonando la sua ascesa a quella del fascismo.

Oggi comunque, spiega, non basta più studiare o viaggiare per decifrare una realtà sempre più complessa e contraddittoria. «Sono stato ovunque per raccogliere informazioni per i miei libri. Ho incontrato chiunque avesse qualcosa da dirmi, millantatori o capi. Sempre a disposizione, a qualsiasi ora del giorno e della notte. La regola era trascrivere tutto, il prima possibile, per non dimenticare nulla. D'altronde essere una spia non è poi così diverso dallo scrivere libri». Una simmetria condivisa con altri romanzieri, da Somerset Maugham a Ian Fleming, fino a Graham Greene, tutti ex agenti del Secret Intelligence Service. «Ma Greene era una pessima spia, ed è diventato uno scrittore solo perché costretto ad inventare storie per riempire i suoi report, diversamente vuoti. Ha esercitato una grande influenza sul mio lavoro, soprattutto all'inizio. Anche se esprimeva una visione religiosa che non ho mai condiviso».

L'attenzione di Le Carré è rivolta principalmente agli scenari storico-politici, alla costruzione di personaggi credibili, immersi in un presente di tensioni e ambiguità. Sotto la supervisione della seconda moglie, Valerie Jane Eustace.

«A fine giornata legge quello che ho scritto, e mi dice che cosa ne pensa. La sua opinione conta tantissimo, ma non è un giudice implacabile. Si tratta piuttosto di reciproca intesa». La stessa estesa a milioni di lettori in tutto il mondo.

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