"L’incredibile storia dell’isola delle rose": passo falso di lusso

Come banalizzare un soggetto interessante e buttare a mare un budget stratosferico (per un film italiano). Il vintage-pop in salsa balneare con sottotesto ideologico proprio non funziona

"L’incredibile storia dell’isola delle rose": passo falso di lusso

Con il film L’incredibile storia dell’isola delle rose, in uscita oggi su Netflix, siamo alle solite. Fatta eccezione per sporadici titoli sublimi come il recente “Mank” di David Fincher, sui film prodotti dalla piattaforma sembra aleggi una maledizione. Si fa per dire, naturalmente, perché non c’è nulla, nella tiepida soddisfazione tratta dai lungometraggi originali del colosso dello streaming, che non sia imputabile alla media qualità a malapena raggiunta.

Stavolta dispiace in particolare perché si tratta di un film italiano che spreca un’occasione e un budget che la maggior parte delle nostre maestranze cinematografiche ha a disposizione solo nei sogni più sfacciati. Con “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, poi, siamo di fronte a un chiaro caso in cui l’eccesso di marketing diventa un boomerang perché crea aspettative destinate ad essere disattese.

Il duo composto da Sydney Sibilia (regista) e Matteo Rovere (produttore) non sembra aver reso giustizia all’interessante materiale di partenza, il soggetto nato dalla storia vera (e sicuramente singolare) dell’ingegnere Giorgio Rosa. Nel 1968 l’allora quarantatreenne visionario costruì una sua isola artificiale al largo di Rimini, fuori dalle acque territoriali, proclamandola Stato indipendente e dotandola di lingua ufficiale (l’esperanto), bandiera, moneta e governo. Un sogno infranto dall’intervento dello Stato italiano, pronto a smantellarla per ovvi motivi.

Il regista della celebre trilogia “Smetto quando voglio” decide di dare al protagonista un’età più acerba, quella del ragazzo fresco di laurea e ancora precario, e lo fa interpretare da un Elio Germano in grande spolvero. Il guaio è che la disinvoltura intelligente dei precedenti film di Sibilia cede qui il passo a una goffaggine stantia e dal tono mai indovinato: un momento prevale il giovanilismo, quello dopo la macchietta politica, quello dopo ancora il gusto per riferimenti d’antan più usurati che accattivanti. Se è vero che “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, raccontando di un micro-mondo in cui non valgono le regole ordinarie, vuol essere un inno alla libertà, a livello cinematografico strizzare l’occhio all’anarchia creativa non funziona: personaggi dalla caratterizzazione sopra le righe vengono inseriti in un’atmosfera che vorrebbe essere leggera ma diventa grottesca, mentre l’intento di documentare una vicenda a suo modo esemplare e foriera di riflessioni naufraga nell’incapacità di renderla coinvolgente. Il progetto narrativo non acquista mai solida credibilità. La piattaforma di idee galleggia artificiosa e senza uno scopo preciso, proprio come i quattrocento metri d’isola ricreati in studio e che campeggiano sulla locandina del film. Non bastano marchi e brani d’epoca a echeggiare il 68, né il gigioneggiare esagitato di Elio Germano, nei panni di piccolo genio dalla megalomania ruspante, a fare di lui un novello Thomas Moore alle prese con Utopia.

La stessa richiesta di riconoscimento alle Nazioni Unite e al Consiglio Europeo nel film appare un giochetto fine a se stesso, perché l’isola è descritta come una piattaforma adibita a lido-discoteca e finita sui giornali in quanto polo d’attrazione per giovani in cerca di un drink dall’ambientazione sui generis. Tutto resta stilizzato, soprattutto il sogno di un microcosmo ideale, perché è la motivazione stessa dei protagonisti, dipinti come semplici svitati, a navigare a vista.

La seconda parte, in cui il Governo italiano non tollera la fondazione di un nuovo Stato in acque così vicine, accantona in parte il piglio pop e perde ancora più mordente. Nei panni di esponenti politici, Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti sono ridotti a mere maschere ilari del malcostume. Anche la storia d’amore tra il protagonista e la sua Gabriella (Matilda De Angelis), esempio di donna indipendente e colta, pur facendo da fil rouge alla narrazione, lascia il tempo che trova.

Gli attori adempiono a quanto loro richiesto, i costumi e gli ambienti sono curati e il comparto tecnico, in generale, è eccellente; il problema è la mancanza di equilibrio tra intrattenimento tristanzuolo e messaggio ideologico.

La poetica della ricerca del proprio posto nel mondo, la denuncia dell’ostilità del potere precostituito verso la libertà individuale e l’invito a creare da soli

il proprio luogo perfetto, vanno perduti in un film dall’insignificante allegria e dalle innocue velleità. L'incredibile, ma vera, storia dell'Isola delle Rose avrebbe meritato di meglio. Un vero peccato.

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