Depurata da ideologia e propaganda, l'arte prodotta in Italia durante il fascismo ha dimostrato un'altissima qualità che le ha garantito una lunga sopravvivenza nei musei, nelle collezioni e nell'arredo urbano. Del nazismo, invece, non è rimasta pressoché memoria, essenzialmente per due ragioni. Troppo elevato il senso di colpa che un intero popolo ha voluto rimuovere: non può esistere un'estetica goebbelsiana se di quella persona si parla come di uno sterminatore. E poi, la qualità degli artisti del Terzo Reich non era particolarmente rilevante: nella Germania nazista non ci furono un Sironi o un Michelucci, piuttosto diversi scultori classicheggianti e accademici, a dimostrazione dell'antimodernismo radicato in Hitler e dell'assenza di progettazione futura.
Del nazismo si ricorda solo l'involontaria pubblicità offerta all'«arte degenerata», in particolare i gerarchi se la prendevano con la pittura astratta che non capivano, oltre a disprezzarla, cosa che accomuna nazisti e comunisti. Della produzione negli anni '30 non c'è traccia, con l'eccezione della visionaria Leni Riefenstahl, regista delle parate hitleriane che intuì la straordinaria forza propagandistica del cinema.
Alla completa mancanza di informazioni, un cruccio per gli studiosi di arte moderna, supplisce alla grande l'edizione italiana di Scultura programmatica nel Terzo Reich. L'autore è Klaus Wolbert, nato nel 1940, storico, curatore, presidente della Fondazione Vaf il cui scopo è promuovere l'arte italiana all'estero. Pubblicato da Allemandi, il volume è bellissimo, raffinato come di consueto, illustrato a dovere. Pesa diversi chili e costa 150 euro, non è il classico libro da tavolino, ma un saggio imponente e forse definitivo. Buona parte delle immagini sono autentiche rarità perché testimoniano opere che sono andate distrutte subito dopo la caduta del nazismo.
Mentre la teoria propagandistica fascista indicava la coesistenza di aspetti contraddittori - modernità e antica Roma, rigore e retorica neoclassica - l'idea di bellezza nel Terzo Reich puntava unicamente sull'armonia formale, sull'esaltazione delle forme ereditate dalla lettura strumentale dell'ellenismo. Logico dunque fosse la scultura la tecnica privilegiata, il linguaggio adatto a rappresentare l'ode alla perfezione. In Wolbert l'analisi da estetica si fa politica: tutto quanto non corrispondesse all'ideale di bellezza doveva essere cancellato, annientato e dunque anche gli artisti finiscono per apparire corresponsabili di questa terrificante ideologia. Da qui la necessità di distruggerne la testimonianza.
In copertina una statua di Arno Breker, La prontezza, che avrebbe dovuto ornare il monumento a Mussolini nel 1939, alta 11 metri, trionfo retorico e manierista. Gli eroi germanici cari a Wagner vengono sostituiti da corpi atletici di uomini e donne, integralmente nudi ma privi di qualsivoglia erotismo o sensualità, ideali elementi decorativi per i giochi olimpici di Berlino del 1936. Scrive Wolbert: «Giovandosi del medium dell'arte plastica figurativa, gli scenografi del fascismo tedesco ne inscenarono le espressioni di maestosità con figure che avrebbero dovuto mostrarne la discendenza da una stirpe olimpica ideale. Così, nella nudità libera e naturale, che rappresentava l'uomo nuovo del nazionalsocialismo nel quale non ci si era ancora mai imbattuti, dinanzi agli occhi di tutti fece la sua comparsa una species umana imponente». È l'impero della bellezza cui concorrono soprattutto le opere di Breker o di Josef Thorak, scultori ufficiali del Terzo Reich, il primo in stretto rapporto con l'architetto Albert Speer per il progetto di rifondazione di Berlino, ammirato a tal punto da Stalin che a guerra finita gli offrì di lavorare in Urss. Thorak invece prediligeva il monumentalismo per rappresentare la vita del popolo tedesco sotto il nazismo, atleti, lavoratori, camerati che si tengono per mano.
Di tale visione eroica, degli uomini-dei non è rimasto davvero più nulla dopo il nazismo? Non proprio. L'ultimo capitolo del libro dimostra come l'esaltazione del corpo non sia certo finita dopo il 1945 e che l'aspetto fisico continua a essere un'arma di forte affermazione identitaria, seppur non così pericolosa.
Riviste di moda, fitness, life style, persino di attualità, hanno continuato a propinare questa visione, fino al paradosso (mica tanto) di una possibile realizzazione dell'eugenetica nazionalsocialista attraverso la manipolazione del Dna, argomento introdotto negli anni '90 dalla teoria del cosiddetto postumanesimo che ancora galleggia, inquietante.
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