Cultura e Spettacoli

La libertà secondo Romanino: la Cappella Sistina del Ribelle

A Pisogne, sul lago d'Iseo, nel '500 il pittore bresciano dipinse degli affreschi monumentali. Per nulla «poveri»...

La libertà secondo Romanino: la Cappella Sistina del Ribelle

A Pisogne, bellissimo borgo sul lago d'Iseo, c'è un capolavoro che vale un viaggio, magari dopo una passeggiata sul lungolago. Sono gli affreschi di Girolamo Romani, detto il Romanino, nella chiesa di Santa Maria della Neve. Capolavoro assoluto e riconosciuto della pittura cinquecentesca, non sta a me valutarlo dal punto di vista artistico. Ma quelle immagini così insolite pittoricamente e teologicamente meritano una lettura storiografica. Cosa indusse il Romanino a raffigurare le Storie di Cristo, in un modo tanto fuori dagli schemi?

Secondo Giovanni Testori l'affresco, che occupa tutto l'interno della chiesa, «per forza poetica tiene alla Sistina, ne è come l'alterità, l'altro modo di vivere il cristianesimo...Qui c'è un modo di viverlo più umile, più da eroismo popolare e montagnardo, più dialettale. (...)Romanino qui fa il controcanto della parola che si fa carne, infatti prende la carne di un popolo, di una valle e ne fa verbo figurativo». Tutto vero, l'affresco è antiaulico, emotivo, partecipativo, per una religiosità più diretta, libera dai riti della Chiesa. Se non che proprio Testori dette di quel lavoro una definizione deviante, oltre che dannosa dal punto di vista culturale e turistico: «La Cappella Sistina dei Poveri»: chi ha voglia di andare a vedere le cose dei poveri, in genere tristi e bruttarelle? Proverò dunque a dimostrare che quella è la Cappella Sistina che potremmo chiamare dell'Uomo libero, o del Ribelle.

Romanino terminò di dipingerla nel 1534, nel pieno di un periodo infuocato per la storia d'Italia e del cristianesimo. Per Roma l'evento più traumatico del secolo e del millennio era accaduto appena sette anni prima. L'imperatore Carlo V, in lite con il Papa, lasciò che la peggiore delle sue armate, senza stipendio da mesi, calasse sulla città. Si componeva di circa 30.000 uomini fra spagnoli, italiani mercenari di ogni regione e tedeschi, i terribili lanzichenecchi. «Landsknecht» significa «soldati del contado», soldati contadini, ancora meno civili degli altri. Erano fanatici della riforma religiosa appena iniziata da Lutero, che traducevano in odio nei confronti del Papa e del clero cattolico: li ritenevano responsabili di ogni ignominia, e volevano punirli con una crociata al contrario. Micidiali nell'uso di asce, lance, mazze, erano meticolosamente spietati.

A Roma allora vivevano 50.000 abitanti, di cui 4900 prostitute (una ogni cinque donne), bisognava pur provvedere ai bisogni carnali dei pellegrini e di un clero non proprio morigerato. Per nove mesi i soldati di Carlo V devastarono la città, torturando e uccidendo: alla fine erano morti 20.000 romani, distrutti 3600 edifici, e ogni cosa era stata depredata. Soprattutto, il sacco determinò la fine della sacralità di Roma e del papato: la Chiesa dovette abbandonare per sempre il grande sogno medievale del suo dominio spirituale e politico sul mondo.

Erano passati appena dieci anni dall'altro grande trauma che ebbe conseguenze definitive sul cristianesimo, lo scisma luterano. Nel 1517 Lutero aveva reso pubbliche le sue 95 tesi contro il papato, che in quel momento era rappresentato da Leone X, uno dei Medici, noto come il Papa più dispendioso della storia: per accrescere le entrate aveva aumentato enormemente la vendita delle indulgenze. Quel denaro, oltre che per il lusso della curia e dell'alto clero, serviva per il culto del bello le grandi opere, diremmo oggi che sono il cuore del Rinascimento e che aveva prodotto, appunto, la Cappella Sistina: un'opera di stupefacente bellezza, ma che rispondeva perfettamente ai criteri religiosi e iconografici che la Chiesa voleva dare di sé e della tradizione cristiana.

Anche per contrastare la Riforma, nel 1522 era stato eletto papa Adriano VI, l'ultimo Papa non italiano fino a Giovanni Paolo II, quattro secoli e mezzo dopo. Fiammingo, si chiamava Adriaan Florisz, era stato precettore di Carlo V e venne scelto perché molti cardinali pensarono che occorresse finalmente un Papa davvero cristiano. Florensz non era mai stato a Roma e i romani si irritarono molto per l'elezione di quello straniero ignoto: nessuno poteva contare, a priori, di trarne vantaggi. All'uscita del Vaticano i cardinali furono accolti a sassate. Ma Adriano VI dette agli italiani una inutile lezione: di umile famiglia, respinse i parenti che erano calati per riceverne favori. Era parco, e non aveva amanti né figli. Pieno di quel senso di rispetto della cosa pubblica che si era già formato nell'Europa settentrionale, appena giunto in Vaticano dispose che si riducessero al minimo i festeggiamenti tradizionali e diminuì le spese della curia: via le cortigiane, via i buffoni e niente lusso. «Benché Leone fusse una sanguisuga di denari - scrisse un cronista - pur li spendeva, ma costui suga e non spende, adeo che tutta Roma sta di malissima voglia né mai se li ricorda tanta mestitia». Meno soldi per la curia significava meno soldi per i romani, che non glielo perdonarono. Quando Adriano VI morì, l'anno dopo l'elezione, fecero gran baldoria e appesero alla porta del suo medico personale un cartello: «Al Liberatore della Patria S.P.Q.R.». Ebbero presto modo di ricredersi, perché sotto il suo successore Giulio de' Medici, Clemente VII, avvenne il sacco. Credo che Romanino pensasse proprio a Adriano VI, con rimpianto, mentre dipingeva a Pisogne. E questo cambia ogni prospettiva dell'opera.

Tutto ciò, poi, avveniva mentre erano in atto enormi cambiamenti economici - ne cito uno, la scoperta dell'America sta spostando il baricentro dei commerci dal Mediterraneo all'Atlantico e novità culturali. L'Italia aveva dato al mondo due libri importantissimi, che però non onoravano gli italiani agli occhi degli altri: Il Principe di Machiavelli, nel 1513, insegna il cinismo del potere; Il Cortegiano, di Baldassar Castiglione, del 1528, insegna la «dissimulazione onesta», ovvero il servilismo ben condotto e l'adulazione. Negli affreschi di Romanino a Pisogne non si vedono né l'uno né altro.

Non c'è traccia neppure di quel che già era nell'aria, ovvero la cupa e opprimente Controriforma della Chiesa, con il Concilio di Trento (1545-63). Né c'è traccia di quella «buona educazione» la forma che prevale sulla sostanza esplosa nel 1558 con il Galateo, di monsignor Della Casa. L'anno dopo Paolo IV inventò l'Indice dei libri proibiti, che sottoponendo a censura tutti i libri editi e inediti soffocò per secoli la cultura italiana, fino a allora una delle più alte del mondo.

No, nella chiesa del Romanino, a Pisogne, non si respira aria di povertà, ma di libertà, non di apparenza ma di sostanza. Questa non è la Cappella Sistina dei Poveri, è la Cappella Sistina dell'Uomo libero, o del Ribelle.

@GBGuerri

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