Lovecraft? Un vero giapponese

Divinità oscure fra shintoismo e manga: il successo del re dell'horror

Lovecraft? Un vero giapponese

Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) è ormai unanimemente considerato il più importante autore moderno del genere horror, la cui opera, lui vivo, fu invece quasi trascurata da critici e lettori. Maestro riconosciuto anche di Stephen King, il «solitario di Providence» è diventato, a partire dalla metà del secolo scorso, una vera e propria icona, oggetto di culto non solo di schiere di lettori o scrittori, ma anche di registi, pittori, musicisti, autori di fumetti e creatori di videogiochi. Lo dimostra efficacemente Lovecraft e il Giappone. Letteratura, cinema, manga, anime, una raccolta di saggi curata da Gianluca Di Fratta e pubblicata dalla Società editrice La Torre (info@editricelatorre.it, pagg. 200, euro 18,50).

Come giustamente sottolinea nella sua introduzione il decano dei lovecraftiani nostrani, Gianfranco de Turris, il Giappone, grazie alla sua peculiare cultura e alla sua rutilante mitologia, è stato un terreno particolarmente fertile per il dilagare della cosmologia di Lovecraft. Le sue oscure, ancestrali e malvagie divinità, da un lato ricordano il pantheon shintoista, e dall'altro si adattano perfettamente al popolare universo virtuale di videogiochi e fumetti made in Japan. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando le truppe americane di occupazione stanziate in Giappone hanno diffuso le edizioni tascabili e gratuite dei racconti di Lovecraft stampate per l'esercito Usa, l'interesse per HPL, come è conosciuto dai suoi fan, è andato crescendo esponenzialmente. Ha ispirato innumerevoli produzioni cinematografiche o realizzazioni di giochi virtuali, anche se quello letterario rimane il campo d'elezione, come dimostra, ad esempio, l'ammirazione espressa da un grande scrittore come Haruki Murakami, a cui «Lovecraft ha aperto un suo diverso personale abisso e lo ha spinto dentro», e per il quale «l'esistenza di Lovecraft rappresenta un ideale», ideale esplicitamente citato nella trilogia 1Q84.

Nonostante il titolo, il libro non tratta esclusivamente dell'influenza di Lovecraft nel paese del Sol levante, ma approfondisce anche temi letterari «alti» (sempre che la stantia divisione tra cultura «alta» e «bassa» valga ancora), come, ad esempio, l'insospettabile similitudine tra T.S. Eliot e H.P. Lovecraft tracciata dall'anglista Gino Scatasta nel suo intervento su «Lovecraft e la tradizione».

Oppure, si fa riferimento all'influenza esercitata dall'autore dei Miti di Cthulhu sul cinema europeo e americano, tema sviluppato dallo scrittore e sceneggiatore Antonio Tentori, che, riprendendo la celebre citazione lovecraftiana: «Non è morto ciò che in eterno può attendere» dimostra come la fama postuma di HPL lo abbia consegnato all'eternità.

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